Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 25 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 8 GIUGNO 2009

Invece del rito del voto, le elezioni europee dello scorso weekend rischiano di celebrare quello della disaffezione generalizzata al progetto Europa. Ad aprile Eurobarometro aveva previsto nel 66% il tasso di astensionismo. [1] Comunque sia andata, è evidente che l’Unione europea non è ancora riuscita a convincere i cittadini dei Paesi membri. A marzo 2007 un sondaggio condotto in Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna stimò nel 44% la percentuale di quelli convinti che l’adesione all’Ue avesse peggiorato le cose. Alla domanda «che cosa associate di più all’Unione europea?», subito dopo quelli che rispondevano il «mercato unico» (31%) e prima di quelli che rispondevano «la democrazia» (9%) e la «pace» (7%) c’erano quelli che rispondevano «la burocrazia»: il 20%. [2]

«Da Bruxelles sono arrivate mille obiezioni e altrettante richieste di chiarimento sul disciplinare. Una tra tante: ”A Milano, in un articolo di giornale, si sostiene che la pizza si può fare anche col ragù. vero?”. E noi, ogni volta, abbiamo dovuto rispiegare che la vera pizza napoletana... ». Così, a inizio 2008, Rosario Lopa, presidente del Comitato per la tutela della pizza napoletana, spiegava perché, a quasi quattro anni dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del disciplinare, ancora non era arrivato dall’Ue il riconoscimento del marchio di S.T.G. (specialità tradizionale garantita). [3]

Se ci si vuol divertire con le stranezze della burocrazia comunitaria, bisogna leggere i tabloid inglesi. La lista dei miti euro-metropolitani è così lunga che nel 2005 si disse che l’ufficio londinese dell’Ue aveva assunto alcuni giornalisti - uno anche dal Daily Mail - per cercare di intervenire sui tabloid e dire la sua (fonte l’Herald Tribune). Danilo Taino: «Per essere sinceri, non si può dire che i tabloid siano lasciati con poco materiale su cui lavorare. Le stranezze che arrivano da Bruxelles e Strasburgo sono numerose. Nel 2003, non un tabloid ma un giornale serio come il Times scrisse che gli allevatori di maiali avrebbero dovuto mettere un giocattolo in ogni porcilaia per tenere felici gli animali ed evitare che si mordessero. La legge europea, in realtà, parlava di ”materiale manipolabile”, anche paglia, per soddisfare le esigenze comportamentali dei maiali. Non si può però negare che l’obbligo apparisse eccentrico». [4]

In Italia, nel 2002, era stato addirittura Alberto Ronchey a lanciarsi contro la burocrazia comunitaria: «Ormai le direttive del ”super-Stato” risultano inflazionate al punto che la loro raccolta, secondo chi ha voluto contarle, avrebbe raggiunto circa 80 mila pagine. Di che si tratta? Basta considerare alcune questioni minori, o anche primarie, discusse negli ultimi anni. Per esempio, in materia di produzioni agroalimentari. Più che vietare le adulterazioni transgeniche rischiose, il contenzioso ha investito le paste di grano duro e tenero, i formaggi artigianali come quelli di Val Brembana o Val d’Ossola, il cioccolato con o senza grassi vegetali, l’appropriata curvatura delle banane o la misura del cetriolo e altre bizzarre questioni. Qualcuno vaneggia in certi uffici di Bruxelles, con le più abusive pretese. Fra le ultime, a quanto dicono, persino quella di uniformare il colore dei tassì nell’intera Europa dei Quindici». [5]

All’epoca Romano Prodi, presidente della Commissione Ue, si lamentò con una lettera al Corriere per l’articolo di Ronchey: « questa l’Europa che vede Alberto Ronchey, un maestro del giornalismo da sempre rispettato per l’ampiezza delle sue esperienze e delle sue visioni? Sono queste le cose che sa dell’Europa un giornalista un tempo leggendario per la sua attenzione al dettaglio e per il suo orrore per ogni imprecisione?». [6] Negli anni però le polemiche sulla burocrazia di Bruxelles non si sono attenuate. Si pensi ad esempio alla direttiva sulle ”radiazioni ottiche” del 2005, poi modificata causa vibranti proteste. La Stampa (commentando la prima versione): «I piccoli costruttori dovranno trasformarsi in una sorta di stazione meteorologica e di esperti dermatologi. A seconda del tempo previsto ogni giorno, infatti, dovranno valutare i rischi da esposizione al sole ai quali i lavoratori sarebbero esposti e suggerire loro di indossare maglie, cappelli, occhiali». [7]

Nel 2008 ci fu la notizia che le imprese con proprietà almeno al 51% in mano femminile sarebbero state esentate dall’obbligo di notificare a Bruxelles l’accesso a contributi pubblici fino a un milione di euro. Giovanna Zucconi: «Splendida idea, incentivo eccellente, ma purtroppo soltanto sulla carta. Perché è carta che rischia di produrre altra carta, laddove invece intendeva eliminarne: altri controlli da effettuare perché la norma non venga aggirata, altri ricorsi a intasare gli uffici da parte di maschi che a parità di condizioni aziendali sostenessero, non proprio a torto, che il sesso non è un valore imprenditoriale bensì una grazia, o disgrazia, ricevuta». [8]

Nel 2005 la sociologa Chiara Saraceno si lamentò per le difficoltà nel presentare i pre-progetti di ricerca socio-economica che nelle intenzioni di Bruxelles avrebbero dovuto portare alla costituzione di uno ”spazio europeo della ricerca”. Sotto accusa il software con cui dovevano obbligatoriamente essere compilate le domande on line: «Costringeva a riempire di 0 le colonne che non venivano riempite di numeri; non accettava, e tanto meno era in grado di correggere automaticamente, ”errori” quali l’uso della virgola (come si fa ad esempio in Italia e in Francia) anziché il punto per i decimali, o l’inserimento di uno spazio di troppo (ad esempio tra due numeri). Il risultato è stato che alcuni progetti non sono stati accettati dal sistema. Quindi non saranno valutati, perché chi li ha compilati on line ha commesso questo tipo di ”errori”. Come ha osservato un mio collega francese ”caduto sul campo” della compilazione on line, perché non è riuscito a individuare e cancellare in tempo uno spazio di troppo tra due numeri, forse è il rispetto degli spazi nei moduli che la burocrazia europea intende per ”spazio europeo della ricerca”». [9]

Tra quelli che più ce l’hanno con la burocrazia europea ci sono i produttori di vino, che nel 2006 sbottarono: «Fa più danni la burocrazia che la flavescenza dorata». Spiegò all’epoca Giovanni Pensabene, assessore all’Agricoltura del comune di Asti: « un dramma: il Comitato vitivinicolo di Bruxelles ha dato il via libera all’invecchiamento artificiale dei vini con infusione di trucioli di legno. Fino ad oggi abbiamo ritenuto che il vino dovesse invecchiare passando qualche anno dentro il legno (botti di rovere, barriques ecc.), adesso lo stesso risultato - almeno dal punto di vista commerciale e legale - lo si può ottenere facendo per qualche settimana il contrario; cioè mettendo il legno dentro al vino. Ne abbiamo già sentite ma è la prima volta che arriva il ”metodo Ikea”». [10]

La questione della curvatura delle banane e della misura dei cetrioli cui faceva riferimento anche Ronchey, è stata risolta a fine 2008 quando, per citare il titolo di un giornale, è arrivata la carota no-limits. Marco Zatterin: «Per tutelare i consumatori, si erano stabilite misure e requisiti per trentasei tipi di frutta e verdura. Si era così deciso, ad esempio, che una zucchina buona dovesse misurare almeno 7 centimetri e al massimo 35, per un peso compreso fra 50 e 450 grammi. Per anni tutti i campioni incompatibili anche per pochi millimetri sono stati banditi dai supermercati. Ma adesso si cambia. Un po’ perché si sono ravveduti, un po’ perché la minore disponibilità di cibo sta colpendo i bilanci delle famiglie, Bruxelles s’è decisa a liberalizzare una parte della gamma di frutta e verdura europea». [11]

Tra i problemi dell’Unione europea c’è da sempre quello linguistico, ancora maggiore adesso che i Paesi membri sono 27. Un settimo dei costi della ”macchina” va a coprire il servizio d’interpretariato e traduzioni. Chiara Bussi: «Evitare la babele linguistica tra 23 idiomi ufficiali costa 1,1 miliardi, ripartiti tra le diverse istituzioni. Una somma che da un lato viene utilizzata per consentire il buon funzionamento delle riunioni e dall’altro per rendere accessibili ai cittadini i documenti ufficiali. ” il costo della democrazia, se si pensa che il 46% degli europei conosce solo la propria lingua madre – spiega Pietro Petrucci, portavoce del Commissario al multilinguismo, il rumeno Leonard Orban ”. Dal 2004 sono state prese misure di austerità: si traduce solo lo stretto necessario”. Cioè atti legislativi e d’interesse generale, come le gare d’appalto e i concorsi. Gli altri documenti vengono invece diffusi in inglese, francese e tedesco, le tre lingue procedurali». [12]

«La Ue destina la maggior parte delle proprie risorse al funzionamento della burocrazia». Bussi: «Non è l’affermazione di un euroscettico, ma una frase riportata sul sito web della Commissione, nella sezione dedicata ai ”falsi miti”. Per sfatare quello in questione, l’esecutivo di Bruxelles spiega che l’azienda Europa costa meno del 6% del bilancio totale dell’Unione (5,7% per la precisione). Un assegno che nel 2009 vale 7,7 miliardi di euro e serve a far funzionare un ingranaggio composto da nove istituzioni, tre sedi geografiche separate e 27 Paesi rappresentati». Il meccanismo più costoso è proprio quello della Commissione che, con 25mila dipendenti, è anche l’istituzione più ”affollata: come nelle altre tre istituzioni, la parte più consistente delle risorse (oltre la metà) è destinata al personale. [12]

La Commissione, centro dell’architettura costituzionale funzionale dell’Europa, è in evidente crisi. Spiegava un paio d’anni fa Giulio Tremonti: «Le prassi che appaiono attualmente dominanti sono due: quieta non movere e compromessi al minimo. L’agenda delle riunioni è sempre più fatta da ”punti A”, preparati dalla burocrazia (o da falsi ”punti B”: discussi per liturgia, ma in realtà pure già preparati dalla burocrazia). L’output è conseguentemente sempre più fatto: da soft-law (meno iniziative legislative realmente nuove, più aggiornamenti o manutenzione di regole preesistenti) o da green-papers. Perché? Credo perché dentro la Commissione a 27 non è più possibile un serio dibattito. Se tutti i 27 parlano per 10’, il dibattito dura più di 4 ore. Di riflesso, per abbandono, poche riunioni durano più di mezza giornata. In questo contesto cresce enormemente il ruolo autoreferenziale della burocrazia e con questo, di riflesso, crescono tanto il deficit democratico dell’istituzione, quanto la sua impopolarità». [13]