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 2009  giugno 05 Venerdì calendario

NEL MONDO CI SONO 20 PRODUTTORI, ECCOLI


Quando lo scorso 8 dicembre Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Group, affermò che «fra 48 mesi resteranno a galla solo sei marchi», era sembrata una proiezione prematura. Dopo sei mesi, la bancarotta di Chrysler e la crisi di General Motors hanno confermato che si va in quella direzione. Inoltre, il periodo nero dell’auto sta facendo tornare in auge l’intervento statale, a volte con situazioni paradossali. Questo è l’esempio di Opel, in cui il governo tedesco prima appoggia gli austro canadesi di Magna, poi ritratta e procrastina, probabilmente a dopo le elezioni politiche di settembre, la decisione ultima della vendita di Opel, lasciando speranze per Fiat.
Il mercato dell’auto oggi è appannaggio di holding più o meno grandi, per un totale di 20 grandi costruttori, lontano da quanto previsto dal numero uno di Fiat. Le operazioni di consolidamento sono sempre state frequenti, ma l’acuirsi della crisi le ha accelerate. L’obiettivo richiesto da Marchionne, sei milioni di vetture prodotte l’anno, è stato inseguito negli anni passati da quasi tutti i costruttori. In un mercato in cui il padrone è il "just-in-time", produzione orientata alla domanda, le società hanno cercato di produrre economie di scala per abbattere i costi. Questa metodologia è stata introdotta da Toyota, primo produttore al mondo, che dopo 74 anni ha scalzato GM dal vertice nel 2008. Nata nel 1933 nell’omonima città giapponese, gestisce i marchi Lexus, Scion e Daihatsu: lusso, sport ed economicità, questo rappresentano i tre marchi minori, uniti al generalista Toyota. Dietro ai nipponici troviamo la galassia General Motors, fatta di oltre 30 brand. Oltre a Opel, le principali case gestite da GM sono Buick, Cadillac, Chevrolet, Daewoo, GMC, Holden, Hummer, Isuzu, Pontiac, Saturn, Saab e Vauxhall. L’obiettivo di Detroit era differenziare l’offerta di vetture, acquisendo quei costruttori in grado di fargli coprire ogni settore di mercato: dal segmento premium di Cadillac a quello medio di Opel e Pontiac, dal lusso sportivo di Saab e Chevrolet al mondo dei fuoristrada con Hummer. Negli anni Novanta, uno degli slogan di GM recitava: «Siamo l’unica casa al mondo che può soddisfare tutte le esigenze di tutti i clienti». Pur di evitare la bancarotta (che scatterà ugualmente), GM si sta smembrando: dopo Suzuki nel 2005, entro pochi mesi saranno vendute Saab, Hummer e Opel.
Sempre in America, anche Chrysler è una holding: Chrysler per la famiglia, Dodge per le auto sportive, Jeep per i fuoristrada. Con l’acquisizione da parte di Fiat, il gruppo ora potrà anche riuscire nell’impresa che ha sempre fallito, entrare nel mercato europeo. Impresa riuscita a Ford, terzo costruttore al mondo (sei milioni di auto l’anno) e proprietario di Lincoln, Mercury, Mazda e Volvo. L’orientamento verso l’Europa è marcato: il secondo quartier generale della compagnia è a Colonia, in Germania. Nonostante la crisi, il gruppo non ha chiesto aiuto statali come Gm o Chrysler, ma ha venduto all’indiana Tata alcuni dei suoi marchi.
Nel 2008 il presidente della società di Mumbai, Ratan Tata, ha comprato due nomi storici come Jaguar e Land Rover per 2,3 miliardi di dollari, ponendo fine alla produzione automobilistica inglese, data l’acquisizione di Rover e MG da parte dei cinesi di Nanjing Auto. Negli ultimi vent’anni il Regno Unito ha perfino perso il controllo su Rolls Royce e Bentley, i due marchi più prestigiosi della tradizione motoristica britannica. Solo Morgan rimane autenticamente inglese, ma si tratta di una casa con una produzione di poche migliaia di vetture l’anno.
Sul fronte europeo, la frammentazione è squisitamente nazionale. La Germania guida il mondo automobilistico con Volskwagen Auto Group (VAG), un colosso da 350 mila dipendenti e 8 milioni di auto prodotte ogni anno. Sotto il controllo di Martin Winterkorn, presidente del gruppo, trovano spazio Audi, Seat, Škoda Auto, Bentley, Lamborghini, Porsche e Bugatti. Nata come "auto del popolo" da un’idea di Adolf Hitler, Volskwagen si è trasformata negli anni in uno degli emblemi della qualità costruttiva, capace di produrre auto da sogno come le Lamborghini, il cui stabilimento rimane però a Sant’Agata Bolognese. Discorso analogo per Daimler, gestore di Mercedes-Benz, Smart, Maybach e McLaren. Dall’auto di lusso alle competizioni di Formula Uno, la holding nata dalla vendita di Chrysler al fondo di private equity Cerberus ha sempre puntato ad un target medio-alto di clienti, come la sua rivale bavarese, Bayerische Motoren Werke GmbH, più nota come BMW. Il suo presidente, Norbert Reithofer, guida anche i marchi Rolls-Royce e Mini, acquisito nel 2000. La Germania dell’auto si racchiude tutta in questi tre grandi gruppi, i quali non perdono occasione per consolidare con altre realtà, se se ne presenta l’occasione.
Diversa la situazione in Francia, dove esistono due soli gruppi, Renault e quello composto da Peugeot e Citroën (PSA). Del primo, controllato al 15 per cento dallo Stato, fanno parte anche Nissan, Infiniti e Dacia, oltre alla divisione Formula Uno. Il suo presidente, Carlos Ghosn, ha provato negli ultimi tre anni di legarsi coi costruttori cinesi, senza fortuna. Ghosn, brasiliano di origine libanese, arrivando nel 2005 in Renault affermò che «non si deve diventare un piccolo costruttore regionale come Fiat o di scomparire del tutto come Rover». Quattro anni dopo, Renault sta ancora cercando il suo partner.
Anche il suo grande concorrente, PSA, soffre. Negli anni, la società parigina guidata da Philippe Varin, dopo il licenziamento di Christian Streiff, è sempre rimasta indipendente: il volere dei vertici è sempre stato quello di portare avanti joint-venture, più agevoli da gestire nei momenti di crisi rispetto al controllo totale di un marchio. Questo però ha bloccato lo sviluppo di una produzione su larghissima scala, come quella desiderata da Marchionne.
A prevalenza indipendente è anche il mercato asiatico. L’indiana Tata Group, creatrice dell’auto low cost Nano, è un gigante che va dall’acciaio alla telefonia, passando per l’hôtellerie. In Corea, Kia e Hyundai si sono fuse per vincere la sfida negli Usa, riuscendoci parzialmente.
In Cina, ci sono oltre 55 marchi differenti di costruttori, come Geely o Great Wall, quasi tutte a partecipazione statale.
Più vario il fronte giapponese. Honda, primo produttore di motori al mondo, non ha mai voluto fondersi con altre case, ma ne ha creata una ad hoc, Acura, per il mercato premium degli Stati Uniti. Simile è la natura societaria di Subaru, specializzata nei rally, mentre è di rilievo il caso di Mitsubishi, in cui il settore auto è solo uno dei tanti business di Mitsubishi Keiretsu, la più grande holding finanziaria nipponica. Fra le varie attività del gruppo ci sono la metallurgia (Mitsubishi Heavy Industries), la petrolchimica (Nippon Oil), la chimica fine (Mitsubishi Chemical), la lavorazione del vetro (Asahi Glass), la cantieristica navale, l’aeronautica, l’elettronica di consumo e strumentale (Mitsubishi Electric).
In Italia, dopo la morte di marchi storici come Autobianchi, si è giunti all’assorbimento di tutti i principali marchi nazionali (tranne un paio) da parte di un solo costruttore nazionale. Fiat Group è l’unico superstite tra i gruppi automobilistici italiani. Oggi comprende i marchi Alfa Romeo, Fiat, Lancia, Ferrari, Maserati e Abarth (più Innocenti e Autobianchi).
A oggi, il gruppo produce 2,2 milioni di auto l’anno, che con il milione e mezzo prodotto da Chrysler aumentano a 3,7 milioni. Con la partita Opel ancora aperta, per Marchionne può ripartire la corsa verso i sei milioni di auto prodotte. Al contrario dovrà cercare alleanze negli spazi che la crisi continuerà ad aprire nel gigantista sistema automobilisico mondiale.