Gilles Kepel, La stampa 5/6/2009, 5 giugno 2009
TRE CRISI LEGATE FRA LORO
Tre assi di crisi strutturano il Medio Oriente contemporaneo: il Levante, con il conflitto israelo-palestinese e le sue propaggini libano-siriane; il Golfo Persico, con gli idrocarburi e gli antagonismi irano-arabi e sunniti-sciiti; la zona AfPak (Afghanistan-Pakistan), dove l’aumento di potere dei taleban minaccia sia le truppe Nato in Afghanistan sia la coesione dello Stato pakistano. Questi tre assi hanno ognuno la sua logica, ma sono anche fortemente intrecciati, ed è questo che costituisce l’identità del Medio Oriente come oggetto problematico complesso del sistema internazionale. Quando il presidente Obama si rivolge al mondo musulmano dal Cairo o il presidente Sarkozy inaugura una base navale francese a Abu Dhabi, è l’intera posta in gioco che va presa in considerazione.
L’asse di crisi del Levante è caratterizzato innanzitutto dal doppio blocco israeliano e palestinese.
Il governo Netanyahu rifiuta sia la soluzione dei due Stati sia il congelamento degli insediamenti nei Territori occupati. I palestinesi sono divisi tra Fatah, che governa la parte di Giordania non colonizzata dagli israeliani, e Hamas, che controlla l’intera Striscia di Gaza, ormai devastata. Hamas si rifiuta di riconoscere Israele ma è pronto a far parte di una Olp incaricata di negoziare con lo Stato ebraico. I dirigenti delle due fazioni palestinesi sono così indeboliti che Egitto e Arabia Saudita da un lato, Siria, Qatar e Iran dall’altro si danno battaglia per allungare la loro influenza su di esse. Accade così anche con l’elemento libanese di questo asse di crisi. Il Libano, il cui destino è legato all’evoluzione della situazione in Israele - come ha dimostrato la «guerra dei 33 giorni» dell’estate 2006 - è più che mai attento all’Iran, che sostiene Hezbollah, il più potente partito libanese.
Il nodo libanese
Per contrastare l’influenza di Teheran, Riad sostiene a caro prezzo la corrente «Futuro», il partito sunnita della famiglia Hariri. Così il Libano è diventato uno dei luoghi della cristallizzazione dell’asse di crisi del Golfo Persico - mentre i cristiani, un tempo dominanti, si dividono tra «cristiani sunniti» e «cristiani sciiti». Quanto alla Siria - che ha cominciato una trattativa oggi interrotta con Israele sotto l’egida turca e fatto delle aperture a Francia e Stati Uniti -, essa non può rinunciare a un’alleanza strutturale con l’Iran, Hezbollah e Hamas, salvaguardando il suo eventuale potere di mediazione. Se l’asse di crisi del Levante occupa il davanti della scena mediatica - con i suoi sessant’anni di storia e la dimensione emotiva del problema ebraico e palestinese - ben più problematico è l’asse del Golfo arabo. Gli interessi in gioco nel Golfo sono di importanza incommensurabile rispetto a quelli del Levante: il mondo non può fare a meno degli idrocarburi che ogni giorno attraversano lo Stretto di Hormuz e rappresentano un quinto dei consumi globali. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono le due prime economie arabe e i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo restano i principali investitori sul pianeta. La soluzione al caos iracheno e il ritiro delle truppe americane - questioni su cui Obama si gioca la credibilità - si inscrivono nel cuore dell’asse di crisi del Golfo. Ma la scommessa più arrischiata del nuovo Presidente americano è il reinserimento dell’Iran nel sistema regionale.
L’utopia sciito-curda
L’asse di crisi del Golfo nella sua forma presente è il risultato del fallimento del progetto di George W. Bush in Iraq. Gli ideologi neo-con della Casa Bianca speravano di fare dell’Iraq pacificato, filoamericano e governato da una maggioranza sciito-curda senza contenziosi con Israele e fuori dall’Opep, il jolly di un Medio Oriente ridisegnato. A questa chimera si è sostituita, per il presidente Obama, l’imperiosa necessità di trovare un altro vettore per avviare la dinamica politica che porti a una soluzione globale della tripla crisi in Medio Oriente. Questo è il senso della mano tesa all’Iran. L’elezione di Ahmadinejad nel giugno 2005 rappresentava per l’establishment politico iraniano l’occasione per trarre il massimo vantaggio dalla paralisi americana in Iraq, facendo salire il prezzo in proporzione al bisogno degli Stati Uniti di neutralità delle milizie sciite irachene alleate di Teheran, mentre subivano lo choc della guerriglia sunnita. Sul piano simbolico, questa politica ha pagato: Ahmadinejad - come Hassan Nasrallah di Hezbollah - si è fatto il campione dell’antisionismo sulle piazze arabe.
Per un Iran «presentabile»
Ma la situazione economica dell’Iran è disastrosa; all’embargo internazionale che risponde alle rodomontate di Ahmadinejad, alla corruzione e allo sperpero si aggiunge un’inflazione record che impoverisce una popolazione ormai stanca. Se la Guida Khamenei appoggia la rielezione di Ahmadinejad, altre fazioni al potere, tra cui l’ex presidente Rafsanjani, padrino della candidatura del riformista Mousavi, sono più ricettive all’offerta americana, nella quale vedono la conservazione della loro influenza su una repubblica islamica meno ideologica e più pragmatica e dell’egemonia iraniana sul Golfo, al prezzo di un’intesa con Washington - un Iran «presentabile» capace di esercitare pressioni su Hezbollah e Hamas e facilitare la ricerca di compromessi in Libano e sul dossier israelo-palestinese. Una prospettiva del genere avrebbe però bisogno di intensi negoziati e già ora urta contro l’ostilità araba. Parlando al Cairo per rivolgersi al mondo arabo e aggiungendo al viaggio una tappa in Arabia Saudita, Obama ha rassicurato i tradizionali alleati sunniti di Washington e il governo israeliano. La riuscita dell’apertura all’Iran ha bisogno che costoro non si mettano di traverso. Ostacolo inaspettatamente forte si è rivelato poi AfPak. la Jihad in Afghanistan degli Anni 80, finanziata dagli Usa e dagli Stati arabi del Golfo per battere l’Armata Rossa a offrire un’alternativa antisovietica e filoamericana alla rivoluzione iraniana in piena espansione, che ha incluso questa regione nel Medio Oriente in senso lato. Sono stati Osama bin Laden e Ayman Al Zawahiri, figli dell’Arabia e dell’Egitto passati alla Jihad che hanno unito a modo loro l’Afghanistan, il Golfo Persico e la Palestina con gli Usa nel cataclisma dell’11 Settembre. Per ritorsione, l’America e i suoi alleati hanno distrutto il regime dei taleban ma poi, anziché consolidare la vittoria, per prolungare la «guerra al terrore» hanno trasferito le truppe in Iraq, dove si sono impantanati, mentre i taleban riconquistavano terreno, minacciando il governo afghano e i soldati Nato che ne garantiscono la sicurezza.
Arginare i taleban
La scommessa di Obama sta nel ritornare nell’Afghanistan abbandonato per completare lo sradicamento dei taleban e delle reti di Al Qaeda installate nelle zone tribali alla frontiera pakistana, smorzando l’asse di crisi AfPak per avere le mani libere nel Golfo e nel Levante. Ma gli interventi in territorio pakistano, soprattutto con le incursioni dei droni che dovrebbero individuare i militanti e invece devastano le popolazioni civili, hanno fatto precipitare la rivolta dei gruppi taleban, che traggono vantaggio dalla debolezza del governo civile e dalle divisioni dell’esercito per occupare intere regioni, avvicinarsi alla capitale Islamabad e colpire il Punjab con attentati devastanti. Su scala mediorientale globale, una paralisi degli Stati Uniti e della Nato nella zona Afpak non può che indebolire la capacità di negoziare e agire sugli altri due assi di crisi. Nell’intreccio che struttura la regione, l’esito dei combattimenti nella valle dello Swat paradossalmente incide sul congelamento degli insediamenti in Cisgiordania o sulla fabbricazione delle centrifughe nucleari in Iran.