Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli, L’Espresso, 11 giugno 2009, 11 giugno 2009
GIANNI DEL VECCHIO E STEFANO PITRELLI PER L’ESPRESSO 11 GIUGNO 2009
Potere alle lobby Farmaci. Assicurazioni. Taxi. Tariffe professionali. Una dopo l’altra, il governo sta smantellando le liberalizzazioni introdotte da Bersani. esultano le categorie. e i consumatori incassano l’ennesima sconfitta.
Se ti chiedono che cosa ricordi del governo Prodi, è facile che vengano in mente le famose lenzuolate di Pier Luigi Bersani, il ministro che ha trasformato le liberalizzazioni in una ’cosa di sinistra’. Si ricordano perché sono entrate nella vita quotidiana. Ad esempio quando si ricarica il cellulare e non si devono più regalare 5 euro alle compagnie telefoniche, o quando si va al supermercato e si acquistano le aspirine a un prezzo più basso che in farmacia. E come questi, anche altri passi avanti che avevano fatto rumore, riempiendo le prime pagine dei giornali.
Molto più silenziosi, invece, i passi indietro del governo Berlusconi. Un dietrofront agli ordini dei tanti poteri, più o meno forti, in grado di far sentire il loro peso proprio su quei politici di centrodestra che (almeno in teoria) farebbero del libero mercato la propria bandiera. Pezzo a pezzo, le lobby dei farmacisti, avvocati, banchieri, assicuratori, tassisti e compagnia bella stanno smontando la rivoluzione di Bersani.
A rischio è ora uno dei migliori frutti di quella stagione: la parafarmacia. Grazie all’apertura della vendita di farmaci da banco al di là dei confini tradizionali, in Italia negli ultimi tre anni sono nati 2.700 punti vendita, fra parafarmacie e ’corner della salute’ negli ipermercati, dando lavoro a circa 6 mila farmacisti. Una novità vantaggiosa per i clienti: da quando c’è la Bersani, la Coop ha stimato un risparmio medio per gli italiani intorno al 25 per cento. Lo conferma Altroconsumo: acquistando ad esempio le compresse di Vivin C al supermercato si risparmia più di un euro, mentre la Tachipirina scende dai 4 euro della farmacia ai 3,10. Che calano a un euro e mezzo se si compra il farmaco equivalente prodotto dalla grande distribuzione.
Dev’esser quindi uomo di salute ferrea Filippo Saltamartini, quel senatore del Pdl che di soppiatto ha presentato un emendamento-antibiotico per impedire la nascita di nuove parafarmacie, e far chiudere (in dieci anni) anche quelle già esistenti. Un colpo di mano celato in un disegno di legge che con pillole e sciroppi ha ben poco a che vedere, trattando di lavori usuranti e sommerso. Tirano più di fioretto i suoi colleghi, Maurizio Gasparri e Antonio Tomassini. I due stringono le parafarmacie in un angolo: da un lato proteggono le farmacie tradizionali, dall’altro consentono anche a bar e tabaccherie la vendita di confezioni più piccole di medicinali senza ricetta, e senza l’obbligo di assumere un farmacista. Insomma, la ragione d’esistere della parafarmacia viene meno.
Nella battaglia delle corporazioni, i farmacisti sono comunque in buona compagnia. Solo qualche mese fa ben 13 ordini professionali sono stati richiamati dall’Antitrust perché riluttanti ad aprirsi alla concorrenza. Notai, geologi, psicologi e giornalisti prevedono ancora le tariffe minime abrogate da Bersani, mentre avvocati, ingegneri e architetti semplicemente aggirano il divieto invocando il ’decoro professionale’. Come se trattare bene il cliente fosse un oltraggio alla categoria. I più agguerriti nel cercare di ridurre la ’lenzuolata’ a un ’fazzoletto’ sono proprio gli avvocati, in testa il presidente dell’Organismo unitario dell’avvocatura Maurizio De Tilla.
Nel marzo scorso il Consiglio nazionale forense ha depositato sulla scrivania del ministro della Giustizia Angelino Alfano una proposta di riforma che va esattamente in senso opposto alla libera concorrenza: ritorno alle tariffe minime, appunto, e accesso più difficile alla professione. Il testo ora è al vaglio della commissione Giustizia al Senato (dove, nemmeno a farlo apposta, trova il gradimento del Pdl).
Altra fucina di instancabili lobbisti è il mondo assicurativo. All’Ania, l’associazione delle compagnie, due bocconi amari non sono mai andati giù. Il primo permette agli agenti di vendere polizze di società diverse. Il secondo garantisce ogni anno all’assicurato la libertà di lasciare la compagnia vecchia per una nuova. Per rimediare, il presidente della commissione Industria al Senato Cesare Cursi e il collega del Pdl Sergio Vetrella si sono subito messi all’opera, presentando due emendamenti-antidoto al disegno di legge sullo sviluppo industriale.
Quello sul diritto di recesso è passato: le assicurazioni potranno sequestrare i propri clienti per cinque anni, e gli incauti che volessero fuggire prima dovranno pagare una penale. Per l’altro emendamento nulla da fare, nonostante gli sforzi della premiata ditta. Non si può dire che non ci abbiano provato: prima Cursi e Vetrella hanno presentato la loro modifica in commissione, senza successo. Poi ci hanno riprovato in aula, usando come testa d’ariete il capogruppo Maurizio Gasparri. Stavolta hanno dovuto arrendersi davanti al Carroccio leghista. "Ma la battaglia dell’Ania non finisce qui", avverte Elio Lannutti, parlamentare Idv e presidente dell’Adusbef, "il presidente, Fabio Cerchiai, ha già fatto sapere che torneranno presto alla carica".
Come le assicurazioni, anche gli istituti di credito hanno avuto da questo governo un bello sconto sulle liberalizzazioni. La libertà per il cliente di spostare un mutuo da una banca all’altra (introdotta due anni fa) è stata azzoppata da Giulio Tremonti in persona, l’uomo che ama definirsi nemico dei banchieri. "Hanno creato una situazione in cui quasi tutte le banche offrono le medesime condizioni", commenta Antonio Lirosi, ex mister prezzi e braccio destro di Bersani nei giorni delle liberalizzazioni: "Così facendo scoraggiano la gente dal muoversi da un istituto a un altro".
Se alle corporazioni si sta pian piano restituendo il ’maltolto’, il cittadino invece si vede privato anche della luce alla fine del tunnel: la class action, il collaudato (all’estero) strumento di difesa del consumatore dai soprusi delle imprese. All’italiano, che prima non aveva neanche idea di cosa fosse, l’aveva fatta sognare Hollywood, con Erin Brockovich (il film) e i legal thriller alla Grisham. Concepita con la Finanziaria del 2007, doveva entrare in vigore l’anno scorso ma, strenuamente osteggiata dalle lobby di telecomunicazioni, tv e banche, non ha mai visto la luce. E da quando la regia è passata in mano al Cavaliere, la class action è stata snaturata. Non è più l’associazione di consumatori a fare da battistrada, con i cittadini che vi prendeno parte con un semplice fax.
Grazie al governo, ora sarà il singolo a dover entrare in tribunale con tutte le carte, da solo, e rischiare in prima persona.
"In America esiste il danno punitivo", spiega Lannutti: "Se l’impresa si comporta male, oltre ai risarcimenti paga una sanzione pecuniaria che funge da monito per il futuro. Invece, proseguendo in questa direzione, da noi funzionerà esattamente alla rovescia. Così se va male ti toccherà pagare sia le spese processuali che il danno d’immagine all’azienda". Di tasca tua, anche perché le associazioni di consumatori vengono di fatto tagliate fuori.
Insomma, da ’azione collettiva’ a eroico e solitario martirio. In più, anche grazie all’emendamento di Alberto Balboni, senatore del Pdl, i suoi effetti non potranno essere retroattivi. Impossibile, quindi, che serva alle vittime dei vari casi Parmalat, Lehman Brothers o Alitalia.
La class action se la possono scordare anche i pendolari di Trenitalia, che all’Authority per la concorrenza denunciano il peggioramento dell’offerta di un servizio ’universale’ solo sulla carta. Fra ritardi abissali, corse soppresse, orari improponibili e i treni veloci che hanno la precedenza su quelli regionali. A Trenitalia, però, non dovranno crucciarsene: grazie al provvidenziale intervento della commissione Industria del Senato, il trasporto ferroviario locale resterà comunque nelle loro mani per un bel pezzo (forse fino al 2021, ipotizzano sconsolati all’Antitrust).
Con il ritorno all’affidamento diretto da parte delle regioni, infatti, non ci sarà partita - né gara, né concorrenza - per nessuno. Dai binari all’asfalto, non certo più ’libero’ pare il futuro dei mezzi di trasporto pubblici e degli altri servizi locali: rifiuti, acqua e energia. Dovevano essere questi i protagonisti della prima grande liberalizzazione del centrodestra. "La riforma del trasporto pubblico locale varata nel giugno dello scorso anno è solo una finta liberalizzazione", liquida Lirosi.
Anche perché il regolamento che avrebbe dovuto darle il via libera già nel febbraio scorso, da allora non s’è mai visto. Magari è meglio così, visto che, "come ha fatto notare anche Confindustria, il testo è perfino più indietro rispetto a quello concepito dal governo Prodi con Rifondazione comunista". Già, Confindustria e le liberalizzazioni, un rapporto quanto meno schizofrenico: da un lato osannate, dall’altro osteggiate. La doppiezza è ben incarnata dalla figura di Giampaolo Galli, direttore generale degli industriali italiani. Quando era all’Ania lottava ferocemente contro, oggi le richiede a gran voce. Ma solo quando fanno rima con privatizzazioni.
Nessuna ambiguità, invece, per i tassisti, che di liberalizzazioni proprio non vogliono sentir parlare. Erano già riusciti a boicottare il primo pacchetto Bersani, spuntando tariffe più alte a fronte di qualche licenza in più. Adesso hanno fanno sentire la loro influenza sul centrodestra per rendere la vita difficile ai propri concorrenti, cioè gli autisti privati. Nasce così una serie di regole-capestro grazie alle quali dal prossimo 30 giugno le auto Ncc (noleggio con conducente) non potranno più insidiare quelle bianche. E forse neanche lavorare.
In Italia esiste infine un altro settore dove, regole o no, la concorrenza non l’hanno neanche mai vista passare. Ossia il gas, con l’Eni a farla da padrone. Qualche settimana fa (sempre in Commissione industria, sempre nel ddl Sviluppo) a sorpresa l’opposizione era riuscita a far passare un emendamento antimonopolio, prorogando dal 2010 al 2015 il tetto che impedisce a una singola società di controllare più del 60 per cento del mercato (ma che, tecnicamente, non viene rispettato neanche oggi). La boccata d’aria è durata poco, la modifica bocciata. ’Merito’ del senatore ammazza-mercato, il solito Cursi, che ha fatto il diavolo a quattro per tutelare il cane a sei zampe.