Marco Del Corona, Corriere della sera 4/6/2009, 4 giugno 2009
IL MISTERO DELL’UOMO SENZA NOME E QUEI QUATTRO SCATTI QUASI UGUALI
HONG KONG – Quell’uomo li ha fermati per sempre. I carri armati sono immobili davanti a lui, adesso come la mattina del 5 giugno 1989. Viale Chang’an, a est della Tienanmen. Intorno, i soldati della 27˚ e 28˚ divisione dell’esercito continuano a sparare. La colonna di tank si muove sull’asfalto, c’è una figura in bianco. Il carro armato cerca di aggirarla, l’uomo ogni volta gli si piazza davanti. Sale sul mezzo, poi arriva qualcuno – passanti, agenti in borghese – e lo porta via. Lo filmano dall’hotel Beijing. Lo fotografano, soprattutto. E il suo gesto diventa l’icona della repressione, sui giornali di tutto il mondo: «E’ l’immagine-simbolo», conviene Ding Zilin, la fondatrice delle Madri della Tienanmen, il figlio ucciso nella notte fra il 3 e il 4 giugno. E’ professoressa di estetica, leggere le immagini è il suo mestiere di filosofa, e con il Corriere ha commentato: «Non importa chi fosse. Poteva finire schiacciato o bloccare i tank. Un gesto folle e coraggioso, ancora oggi è tutta lì l’essenza della protesta ».
L’uomo non ha nome. Lo hanno cercato, sono stati fatti dei nomi. Invano. Resta l’immagine. Anzi: le immagini. Perché sono quattro, scattate da quattro fotografi, inquadrature che si sovrappongono nella mente ma che Patrick Witty, photoeditor del New York Times, ha riletto una per una, pubblicando sul suo blog i racconti dei reporter autori. Charlie Cole era a Pechino per Newsweek. Vede, scatta. Poi teme che in camera salgano gli uomini della sicurezza. Così nasconde il rullino, avvolto in un sacchetto di plastica, dentro la cassetta del wc. Fa bene, perché la polizia giunge davvero dopo poco, gli svuotano le macchine fotografiche ma lo scatto memorabile si salva. Stuart Franklin, dell’agenzia Magnum e incaricato dal settimanale Time, era accanto a Cole. Ricorda l’ansia dei pochi scatti a disposizione (un rullino da 36) e la pellicola portata a Parigi nascosta in una confezione di tè da uno studente francese. Jeff Widener ( Associated Press) conserva gratitudine per lo studente («Kirk o Kurt») che gli procurò la pellicola. Tempo d’esposizione troppo lento (1/30 o 1/60) per un teleobiettivo troppo lungo (800mm), ma con un tuffo di gioia scopre, dopo, che la foto era miracolosamente venuta. Arthur Tsang Hin Wah, della Reuters, scatta con i colleghi ma la sua immagine è pronta con 12 ore di ritardo perché in un primo momento il caporedattore aveva preferito un’altra inquadratura, l’uomo che si inerpicava sopra il carro armato.
Le 4 fotografie ricordano che esiste anche una memoria dei responsabili, non solo la memoria delle vittime. Lo spiega il sinologo Perry Link, secondo il quale non è del tutto vero che il regime vuole che i cinesi dimentichino la strage, anzi, devono ricordare per perpetuare sottomissione e paura: «L’intimidazione dipende in modo cruciale dalla memoria. Una repressione non può provocare alcuna autocensura, se la gente dimentica». Ma è difficile che l’uomo delle foto appartanga alla memoria di chi, ancora oggi, preferisce i carri armati.