Leonardo Maisano, ཿIl Sole-24 Ore 4/6/2009;, 4 giugno 2009
KEYNES NON LA COPERTA DI LINUS
Il dubbio è che si sia sentito toccato sul nervo scoperto dell’orgoglio accademico. O meglio, su quello, ancor più sensibile, di un solido ego, giustificato com’è dalla grande fama raggiunta in tenera età, per i tempi che si concedono a uno storico. Il dubbio è che Niall Ferguson, 43 anni, docente ad Harvard e Oxford già assiso su un elenco di volumi di formidabile successo (Penguin ha appena rilanciato l’edizione paperback della sua bella storia della finanza mondiale The ascent of money) non abbia mai digerito le poche parole con cui il Nobel Paul Krugman liquidò la sua teoria sulle conseguenze del credit crunch. E per questo, Ferguson, continui a polemizzare con lui, ma ora anche con Martin Wolf che ieri sul Financial Time e sul Sole 24 Ore aveva confutato le sue tesi.
«Krugman è stato piuttosto villano, è vero. Ma la mia, anche con Wolf, è una disputa intellettuale. A Martin ho replicato con una lettera (la sintesi è in basso, il testo integrale in prima pagina,
ndr). Ho tutto il diritto a contestare chi sostiene che non ci sarà pressione sui tassi in presenza di un deficit da 1.800 miliardi di dollari. Soprattutto ora che c’è. La cosa straordinaria è che Krugman e altri come lui sono tornati alla teoria generale di Keynes come se fosse la coperta di Linus. Un approdo rassicurante, forse, ma che non tiene conto degli ultimi 70 anni di storia».
Ferguson nel salotto di Penguin, con vista sullo Strand, è reduce da una lunga intervista alla Bbc. Sta preparando una nuova lezione universitaria e affila la punta per un altro affondo contro gli economisti colpevoli di non aver visto prima e di non capire oggi l’avvicinarsi di una delle più grandi crisi della storia. « pericoloso generalizzare. Gli economisti con una visione storica hanno, infatti, compreso prima degli altri. Penso a Ken Rogoff, docente ad Harvard ed ex chief economist del Fondo monetario. La maggior parte, però, non ha intuito e non ha inteso, perché il mondo considerato nei libri di testo d’economia non valuta come dovrebbe i cambi strutturali avvenuti nei mercati finanziari, i modelli standardizzati non lo consentono. Negli ultimi 25 anni, il sistema globale delle operazioni finanziarie è mutato radicalmente e un approccio economico tradizionale non basta per comprendere la realtà odierna. Per questo tanti economisti hanno fallito. Due sono a mio avviso le considerazioni di fondo: il mondo è molto diverso da quello degli anni 30 e non si può pretendere di interpretarlo affidandosi ai grafici; questa non è la Grande Depressione. La politica monetaria della Fed è stata corretta e ha evitato l’aggravarsi della crisi, ma ora è sotto pressione. Deve acquistare nuovi titoli di stato ampliando il suo bilancio molto oltre l’impegno di 300 miliardi e per la Fed si crea un problema di credibilità. Dove arriverà il suo bilancio? A 2mila miliardi di dollari, 3mila o addirittura 4mila? Qui non si tratta di stimoli fiscali o di approccio keynesiano, ma di riconoscere il sostanziale fallimento dell’assetto strutturale del sistema finanziario americano. Il ricorso al debito è la principale debolezza dell’impero americano».
Ferguson non offre una soluzione, è ecumenico nel riconoscere gli scenari che ci aspettano. E per cominciare liquida ancora una volta le parole di Krugman che non più tardi di tre giorni fa ha ridimensionato la minaccia di un’imminente ripresa dell’inflazione. «Krugman dice ora che dobbiamo temere solo la paura dell’inflazione? tautologico:il più grande driver dell’inflazione è l’aspettativa. Credo che la popolazione americana abbia tutti i motivi per temerla: deficit pubblico, le materie prime che ripartono, crescita della massa monetaria con M1 al 20% e M2 al 9. Non puoi avere deflazione fino a quando hai questi numeri, se Krugman sa citarmi un esempio sarei davvero curioso di saperne di più. In prospettiva è diverso. La paura dell’inflazione è legittima, ma lo è anche quella della deflazione. Ci sono due grandi mostri che combattono là fuori, King Kong contro Godzilla. Inflazione e deflazione. Io ritengo molto più probabile la prima, il prossimo anno soprattutto, e lo dico anche perché ci sono interessi convergenti a farla ripartire. già accaduto negli anni 70».
Nei giorni scorsi all’Hay festival gallese, happening di intellettuali che ripensano, discutono, s’accapigliano sul corso dell’esistenza, Ferguson ha tolto a Nouriel Rubini gli abiti di Dr Doom, disegnando gli scenari di un dopo-crisi da brividi. Al collasso finanziario seguirà quello politico e un filo comune legherà i paesi segnati dall’"asse della rivolta" destinata a sostituire,nell’immaginario collettivo, l’"asse del male". Sembrano, sono, battute di grande effetto, ma lo storico inglese le recupera e traccia in questa conversazione le conseguenze ultime del credit crunch.
«Non voglio essere confuso con Nouriel, né voglio che mi si arruoli fra chi crede allo scenario della Grande Depressione. Le rivolte che immagino non hanno nulla a che vedere con le conseguenze politiche della crisi del 1929. Quando ho parlato di "asse della rivolta" mi riferivo alla destabilizzazione dei governi più deboli. Ne abbiamo visti cadere quattro nell’Europa dell’Est. Ne vedremo cadere altri in Asia. La Thailandia trema. Assistiamo a qualcosa di simile anche in Gran Bretagna, dove la sensibilità degli elettori verso lo scandalo dei rimborsi parlamentari è stata acuita dalla crisi. E così hanno preso fiato quelle forze populiste che non avevano mai trovato tanto spazio. E se Brown continuerà a rinviare le elezioni permetterà a Bnp (British national party di estrema estra, ndr) e all’Ukip (antieuropeisti,ndr)di strutturarsi, consentendo loro di diventare presenze costanti della vita politica britannica. ragionevole attendersi atti di rivolta sociale che negli Usa avranno la forma di un ritorno della crimina-lità, in Europa di dimostrazioni di piazza, in altri Paesi colpi di stato o rivoluzioni. L’affermarsi del denaro, per citare il mio libro, è seguito dalla discesa della democrazia. Anche in termini di geopolitica».
In Russia lo vediamo già. La fragilità ucraina, e in misura molto minore quel-la dei paesi baltici, dischiude nuove opportunità a Mosca sul suo estero vicino, eterna ossessione del Cremlino. Putin può stringere su Kiev e anche sul Caucaso affermandosi come unico, vero partner economico per le schegge infedeli dell’ex Unione Sovietica.Ma per Ferguson la crisi sarà la grande prova sulla volontà cinese.
« uno scenario molto più complesso di quello degli anni 30. Tutti gli alleati asiatici dell’America sono in ritirata, mentre Pechino dovrà decidere se restare il partner del mondo occidentale oppure giocarsi la partita neoimperialista. In parte è già in corso in Africa e in Sud America. Una cosa è, infatti, la ricerca d’intese commerciali per avere materie prime, un’altra, molto diversa, è l’acquisizione di miniere,l’installazione di fabbriche per la trasformazione, la costruzione di infrastrutture. Gli imperi nascono anche così. Si prevedevano molti decenni per assistere a questo genere di evoluzione e invece la crisi darà, sta dando già, una fortissima accelerazione. Goldman Sachs aveva già portato - prima del credit crunch - al 2027 l’anno del sorpasso fra l’economia cinese e quella statunitense. Non volevo crederci, ma ora mi sto convincendo che sia possibile. Entro un un paio di decenni.D’altra parte,quest’anno la Cina crescerà del 6% mentre il mondo occidentale si contrarrà. E lo sviluppo economico futuro dovrà venire dalla produttività».
Vincerà davvero la temuta "democratura", quell’ibrido con il corpo di democrazia e la testa di dittatura di cui Pechino è l’esemplificazione suprema? Ferguson non arriva a tanto, ma non si nega un’ultima, amara constatazione. «Una cosa è certa. Nei prossimi dieci anni la crescita americana non sarà paragonabile a quella degli ultimi dieci, gonfiata dal debito e dai consumi interni. L’America non se lo può più permettere ». La Cina sì.