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 2009  giugno 02 Martedì calendario

IL FALLIMENTO DI «GM» E IL WELFARE MODELLO USA


La General Motors ha portato i libri in tribunale chiedendo di essere ammessa alla procedura fallimentare secondo il chapter eleven. Il buco ammonta a 91 miliardi di dollari.

La casa automobilistica di Detroit non verrà tuttavia smembrata e messa all’asta. I governi di Stati Uniti e Canada hanno garantito prestiti per 50 miliardi di dollari che daranno loro diritto a una partecipazione del 72% nella nuova Gm. Il fondo sanitario dell’United Auto Workers avrà il 17,5% e un 10% potrebbe andare ai creditori.


Si ripete dunque lo schema adot­tato per Chrysler, ma con una va­riante non trascurabile: all’orizzon­te non si intravede nessuna Fiat. Forse il disastro di Gm, troppo a lungo tenuto nascosto, è talmente grande che nessun costruttore ha interesse a farsi coinvolgere o for­se anche perché la maggiore delle big three di Detroit è un tale simbo­lo dell’America che l’America cerca di salvarlo con le proprie forze.

Il crac era nell’aria da tempo. Da tre anni, nonostante lo scorporo della Gmac, la banca interna che curava le vendite rateali fonte di utili illusori con i quali il manage­ment compensava la debolezza in­dustriale, il gruppo aveva un patri­monio netto negativo. A fine 2008, traducendo tutto in euro, era nega­tivo per 61 miliardi, mentre quello della Toyota era positivo per 85 e quello della Fiat per 11. Per com­pletezza dell’informazione diremo che le uniche altre case con patri­monio netto negativo erano la Chrysler (meno 2,2) e la Ford (me­no 11,5).

Fallimenti di questa grandezza hanno sempre molte cause. Ma nel caso di Gm e Chrysler la causa principale sembra essere il peso delle prestazioni sanitarie e previ­denziali che l’azienda fin dagli an­ni Settanta si era impegnata ad as­sicurare ai dipendenti in attività e in pensione: duemila dollari di so­vrapprezzo per ogni vettura, un handicap mortale nella competi­zione con la Toyota, insediata in Alabama e in altri Stati del Sud do­ve, di fatto, le unions erano fuori gioco. Il welfare aziendale ha offer­to a lungo la soluzione più genero­sa dell’equazione privatistica ame­ricana: la salute e la pensione con­siderate quali occasioni di busi­ness, da impostare attraverso con­tratti individuali o collettivi, e non, come avviene in Europa, qua­li diritti della persona che lo Stato si impegna a garantire, magari an­che appaltandone l’esecuzione a soggetti privati ma comunque fi­nanziandosi con prelievi sui reddi­ti. Nel momento in cui l’oligopolio perfetto di Detroit è stato rotto dal­la concorrenza deregolata dei terri­tori, il welfare aziendale si è rivela­to una palla al piede. Con un siste­ma sanitario nazionale, forse, la concorrenza sarebbe stata fatta in un altro modo.

Ora l’America, che aveva scelto di favorire i capitalisti, i manager e i consumatori mettendo nell’ango­lo i lavoratori, si domanda che co­sa fare. Guarda al welfare europeo, pensa di tassare i ricchi, entra nel capitale delle imprese ma, come promette il presidente Obama, da azionista riluttante, che affida la gestione ai manager ed è pronto a uscire. Funzionerà? Certo, l’Iri de­gli anni Trenta fece le stesse pro­messe. E le public authorities ame­ricane, avviate da Roosevelt, sono ancora in piedi. Ma l’interrogativo più serio riguarda le conseguenze che tutte queste operazioni avran­no sul finanziatore di Gm: sul ra­ting che gli concedono non le agenzie ma gli investitori. Chi sot­toscrivere i Buoni del Tesoro ame­ricani? La Cina, in buona parte. E sarà contenta la Cina, potenza au­tomobilistica nascente, che i suoi soldi servano a tenere in vita i con­correnti? Quella stessa Cina che co­mincia a preferire i diritti speciali di prelievo al dollaro?

Patrimonio negativo
A fine 2008 il patrimonio netto era negativo per 61 miliardi, mentre quello della Toyota era positivo per 85 e quello della Fiat per 11 Modello europeo
L’America ora guarda al welfare europeo per le garanzie sulla previdenza E entra nelle imprese come «azionista riluttante»