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 2009  giugno 02 Martedì calendario

IL MERCATO FERITO, VIVR A LUNGO

un torrente in piena: scoppiettante, rapido, allegro, Jagdish Bhagwati, docente pro mercato alla Columbia University, appassionato teorico della globalizzazione e del libero commercio, respinge le tesi sulla fine del capitalismo come lo conosciamo. E apre uno scisma nella sua stessa scuola: se la prende soprattutto con Joseph Stiglitz e con Jeffrey Sachs, entrambi professori alla Columbia, entrambi stelle dell’economia ed entrambi pronti, seppure con modi e tesi diverse, a cavalcare l’onda popolare che invoca un ritorno al centralismo per la gestione economica, al controllo del mercato. Secondo Bhagwati, Stiglitz diventa un interventista rancoroso, ossessionato da antichi fantasmi personali. Sachs viene più semplicemente liquidato come un tecnocrate.
Quando fra professori compassati il dibattito rompe gli argini e diventa lite pubblica, vuol dire che la posta in gioco è particolarmente alta. Chi emergerà come il teorico che ha già impostato l’equazione per il nostro futuro? Non lo sappiamo ancora. Bhagwati, 74 anni, nato e cresciuto in India, originario del gruppo etnico dei Gujarati (di cui faceva parte anche il Mahatma Ghandi) va a studiare economia prima a Cambridge e poi al Mit. Paul Samuelson, monumentale premio Nobel della scuola keynesiana, lo ha paragonato al compositore Haydn: «Ha scritto cento sinfonie e tutte di altissimo livello... ha provato che la globalizzazione migliora la produttività dei paesi più ricchi, come l’America, e dei più poveri in Asia o in Africa». In questa intervista, Bhagwati è pragmatico: la crisi c’è stata. Ha sue connotazioni e responsabilità molto precise. Ci sono molte cose da rimettere a posto. Ma sarà superata senza aver prodotto traumi o tragedie collettive paragonabili a quelli degli anni Trenta.
 vero che il capitalismo come lo conosciamo è finito?
C’è la percezione popolare del post crisi, e poi c’è quella reale. La concezione popolare si autoalimenta nella stampa. La serie del Financial Times sul capitalismo aveva un taglio di predefinito scetticismo. L’Economist in una copertina ha messo Sarkozy in testa, poi la Merkel e in fondo, schiacciato a destra, c’era in piccolo Gordon Brown. Un nuovo ordine gerarchico per dire che il modello anglosassone è finito. Neanche un punto interrogativo. Poi, se si leggono gli articoli, il contenuto è più problematico: la critica al modello francese o a quello del socialismo di mercato è forte. Ma l’impatto di una copertina come quella sulla concezione popolare di questa crisi è enorme. E dunque c’è qualcosa nell’aria, nei media in particolare, forse perché loro stessi sono in difficoltà o perché il sensazionalismo vende. E dunque si va con la corrente. Eppure sono convinto che alla fine tutto questo rumore contro il capitalismo svanirà.
E qual è allora la concezione "reale" del post crisi?
Cominciamo dalle tesi di chi è partito all’attacco. Stiglitz dice: «Con la crisi è come se fosse caduto il Muro di Berlino». L’analogia è completamente sbagliata. Con il Muro di Berlino è caduto un modello politico ed economico disastroso privo dei quattro poteri di compensazione che intervengono se lo stato fa qualcosa di disastroso: società civile, potere giudiziario autonomo, partiti di opposizione, libertà di stampa. I fatti ci dicono che abbiamo avuto un’interruzione di 25 anni di prosperità, di riduzione di povertà di innovazione senza precedenti...
Forse c’è qualcosa di più di un’interruzione: subprime, banche fallite, mercati del credito paralizzati, crisi economica. La crisi è anche ideologica...
Bene, veniamo agli aspetti reali. Ci sono due fattori all’origine di questa crisi. Il primo è quel che chiamo il connubio Tesoro-Wall Street: porte girevoli attraverso le quali banchieri come Bob Rubin vanno avanti e indietro. Con il loro bagaglio di influenza e di lobby. Sono persone la cui vita poggia su esperienze di trading e di innovazioni sui mercati dei capitali soprattutto negli ultimi 25 anni. Il secondo aspetto, riguarda la liberalizzazione prematura di certi comparti del settore finanziario. Il problema nasce dalla comunione di "liberalizzazioni premature" con la "compiacenza dell’asse Wall Street-Tesoro". Si è peccato di eccessi, di sicurezza e di avidità. E così il meccanismo è scappato di mano. Con i controllori che non capivano neppure come funzionassero questi strumenti "innovativi" proposti al mercato. Per cui, prima lezione: quel che è buono per Wall Street non è buono per gli Stati Uniti. Detto questo, una cosa è riparare il danno, un’altra è una crisi ideologica. E io non credo che siamo alla crisi ideologica, come non lo fummo per il crollo del 1987 o per la crisi Ltcm del 1998.
Perché?
Perché siamo già passati attraverso un conflitto ideologico antimercato, contro il capitalismo, contro l’internazionalizzazione e lo abbiamo risolto. A cavallo fra la prima e la seconda metà del secolo scorso, molti fra i paesi in via di sviluppo guardavano con sospetto al processo d’integrazione internazionale: avrebbe favorito i ricchi penalizzando i poveri, si diceva. Penso al lavoro di Raúl Prebisch o di Osvaldo Sunkel e di Henrique Cardoso, ancora nel 1979. Non c’era solo ambivalenza, c’era paura dell’internazionalizzaizone. Si voleva che ad accelerare fosse lo stato. Anch’io all’inizio della mia carriera ero un fondamentalista antimercato. Poi ho fatto viaggi empirici: ho visto interventismo di ogni genere e su tutto, dal Ghana al Brasile, all’Egitto. Al punto che una volta, durante le mie ricerche in loco, mi venne una battuta: il problema di questi paesi era che la mano invisibile del mercato non la si trovava davvero da nessuna parte. Poi Cardoso è diventato presidente del Brasile e ha cambiato di 180 gradi, ha aperto. Negli anni, più tardi, questo tipo di cambiamento ideologico e strutturale è avvenuto in Russia, in Cina, in India. E non credo che, cambiando, pensassero al Washington Consensus, quelle dieci regole per il mercato messe insieme da Williams nel 1989. Avevano capito, nei fatti, che erano sulla strada sbagliata, che dovevano aprire.
Cosa propone allora?
Che si riparino le falle, con nuovi controlli e regole per la finanza. Allo stesso tempo, prima del G-20, mi sono rivolto sia a Gordon Brown che a Barack Obama per sottolineare quanto sia importante tenere duro sull’apertura: non solo sul commercio, di cui parliamo sempre, ma su tutto, sull’immigrazione, sul lavoro, sugli investimenti esteri. Guai a lasciare l’intercomunicazione. E nella prima pagina del documento finale ne hanno parlato, senza troppi dettagli, ma ne hanno parlato.
A proposito di Washington Consensus, il suo collega Stiglitz lo criticò e oggi critica anche le decisioni dell’amministrazione Obama...
Ci sono vecchi rancori. Soffre ancora per il licenziamento dalla Banca Mondiale ai tempi della crisi asiatica, nel 1999. Soffre per essere stato tenuto fuori da Larry Summers e per essere stato ignorato da questa amministrazione. Mi spiace dirlo, ma tutti sanno che la sua rabbia dipende da quello. Aggiungo, l’ispirazione critica di Stiglitz contro Obama viene da sua moglie, Anya Schiffrin, la figlia di André Schiffrin, persone molto di sinistra e molto colte, cosa che Stiglitz non è. Ha letto molto poco. Vede, Joe viene da Gary, Indiana, e ha una visione limitata. Prenda Samuelson, per coincidenza anche lui viene da Gary. Ma Paul aveva una memoria fotografica. Cominciò a leggere a 14 anni quando arrivò a Chicago. Ha letto più di chiunque altro, è un personaggio straordinario, con grande senso dell’umorismo. Stiglitz resta più ignorante che mai, ma la moglie lo usa, gli fa le pubbliche relazioni. Dice, mentendo, che il suo libro ha venduto un milione di copie. Insomma, per me non è credibile.
E Jeffrey Sachs?
 un tecnocrate, insiste sulla pianificazioni di aiuti finanziari ai paesi poveri. E se gli dici che devi ponderare gli aiuti con la capacità di assorbimento, ti dice che sei un repubblicano.... Ora c’è una ribellione degli stessi africani contro di lui. Non vogliono aiuti fini a se stessi, che finiscono in un buco nero. Vogliono impostare politiche di crescita sostenibile interna. Mi creda, cercare le risposte per il futuro nelle politiche fallimentari del passato è un esercizio inutile: non passeranno.