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 2009  giugno 02 Martedì calendario

CON GM FINISCE UN GRANDE CAPITOLO DEL NOVECENTO

La procedura di fallimento concordato per la General Motors pone fine a uno dei più grandi capitoli della storia industriale americana del Novecento. La Gm ha dominato la scena economica Usa per quasi ottant’anni, con un primato nell’industria automobilistica che ha sancito l’egemonia americana nel settore su scala globale. Non solo: la Gm è stata il modello della grande impresa per buona parte del secolo scorso. Quando Peter Drucker pubblicò nel 1946 il libro che doveva fare di lui il teorico più noto del managerialismo lo dedicò proprio alla casa di De-troit, dopo un’investigazione meticolosa delle sue procedure e del suo modo di operare:non a caso l’opera di Drucker, ancor oggi in circolazione, si intitola "Concept of the Corporation". Il libro di Drucker non piacque peraltro ad Alfred P.Sloan,l’artefice dello straordinario successo manageriale della Gm, che evitò sempre di nominarlo. Ma già alla fine della seconda guerra mondiale la supremazia industriale della Gm non era più in discussione: essa era "la" grande impresa americana per eccellenza. Dalla metà degli anni cinquanta in avanti, e per circa mezzo secolo, il colosso dell’auto si sarebbe insediato al vertice della classifica annuale stilata da "Fortune" sulle maggiori imprese del mondo: la Gm avrebbe occupato stabilmente una delle primissime posizioni, quando non la prima in assoluto.
Essa ha dunque rappresentato universalmente l’impresa a stelle e strisce. Non soltanto per le dimensioni della sua presenza di mercato in vari continenti (dieci anni fa, all’epoca della sfortunata alleanza con la Fiat, quasi un auto su quattro fra quelle in circolazione recava uno dei marchi della Gm),ma perché sembrava impersonare alcuni caratteri portanti del modello di economia americana affermatosi nel Ventesimo secolo. Per cominciare, la Gm era un gruppo senza una consolidata proprietà di riferimento, bensì ad azionariato diffuso. Costituiva cioè l’esemplificazione di un’impresa a guida compiutamente manageriale, in cui le funzioni di direzioni erano completamente separate dalla proprietà. Il caso opposto, dunque, a quello della Ford, a cui la Gm aveva sottratto l’egemonia sul mercato dell’auto. Già negli anni trenta, erano molti coloro che giudicavano l’assetto d’impresa della Gm più moderno di quella della sua contendente, la Ford. In un certo senso,l’ascesa dell’impresa manageriale aveva oscurato la leadership imprenditoriale di Henry Ford, che aveva assunto - agli occhi di una parte cospicua dell’opinione pubblica Usa - le sembianze di un autocrate, a causa del desiderio di imporre la sua autorità in ogni condizione e di aspetti inquietanti sotto il profilo del rispetto delle regole democratiche come il suo antisemitismo e l’avversione frontale manifestata verso la rappresentanza sindacale. La Gm, al contrario, aveva dato prova di sapersi adattare ai tempi: aveva riconosciuto la United Automobile Workers, il sindacato dei lavoratori dell’auto,dopo i duri scioperi del 1937, integrandosi sempre più nel mainstream della storia americana. In fondo, la Gm -con le sue vetture,come attraverso lo stile di vita dei suoi lavoratori- si era compenetrata col modello sociale americano e con la sua prospettiva di un’inclusione basata soprattutto sulla diffusione del ceto medio.
Per molti anni,forse per decenni, la Gm è parsa di poter convinta di poter durare grazie all’impressionante estensione raggiunta sui mercati di tutto il mondo. In realtà, i segnali di allarme avevano incominciato a moltiplicarsi da tempo e non ha certo torto l’"Economist" a richiamare, nei giorni del collasso, l’analisi impietosa che aveva destinato al gigante di Detroit addirittura vent’anni fa. Ma l’intero sistema di Detroit ha mostrato di non voler ascoltare gli avvertimenti che gli sono stati progressivamente indirizzati man mano che emergeva come i suoi ingranaggi stessero inceppandosi. Già all’epoca dell’alleanza con la Fiat,c’era stato chi aveva messo in dubbio che quella della Gm fosse una buona strategia. Gli analisti avevano colto i segni di deterioramento della competitività delle sue auto nel mondo e della contrazione dei suoi margini di profitto. Le "Big Three" si reggevano essenzialmente sulla vendita dei Suv sul mercato nordamericano, che bastava ad assicurare utili tali da compensare le perdite all’estero. Una condizione che si rivelerà fatale nel lungo periodo.
Ciò che non era stato messo sufficientemente in conto è che la caduta di Detroit sarebbe stata tanto fragorosa da riverberarsi anche sui concorrenti, persino sui produttori che più s’erano dati da fare per insidiare il primato statunitense. Con la fine della vecchia Gm, viene meno l’egemonia che gli Usa hanno esercitato per cent’anni sul sistema dell’auto, da quando Henry Ford, con la sua Model "T", creò la produzione di massa.