3 giugno 2009
ALLE PENSIONI DEL FUTURO SERVIR UN ALTRO PILASTRO
Un operaio e un artigiano. Entrambi hanno iniziato a lavorare nel gennaio del ’96, al debutto della riforma Dini. Cioè quando l’Italia, primo paese in Europa (seguito a breve dalla sola Svezia), disse addio alle pensioni basate sul modello retributivo per passare a quello contributivo. Trentacinque anni dopo, nel 2031, al compimento dei 65 anni (60 se donna), arriva il momento della pensione. La particolarità è che questi lavoratori sono i primi a percepire un assegno calcolato interamente con il nuovo metodo contributivo. Con quali risultati?
Il dipendente si ritrova un assegno pari al 60% circa dell’ultima retribuzione; meno bene va al lavoratore autonomo che non arriva al 40% del suo ultimo reddito. Per entrambi, certo, al netto dell’effetto fiscale e contributivo, la percentuale di copertura sale di altri 10 punti, ma i livelli attuali di sostituzione restano distanti (soprattutto per l’autonomo).
Ora torniamo al presente. Perché il 1° gennaio prossimo entrano in vigore - dopo innumerevoli rinvii - i nuovi coefficienti di trasformazione delle pensioni. Questi parametri sono il cuore del nuovo sistema di calcolo delle future pensioni: i contributi versati durante una vita di lavoro vanno a formare un «montante individuale», che viene rivalutato annualmente sulla base della crescita del Pil. Qui, in effetti, arriva una prima notizia cattiva: la rivalutazione della base di calcolo è effettuata tenendo conto della media geometrica quinquennale del Pil e in caso di crescita negativa (come il 2009) l’effetto è una riduzione. Poi ancora: al momento del ritiro il «montante » viene moltiplicato per il coefficiente di trasformazione fissato per legge sulla base dell’aspettativa di vita e trasformato in prestazione previdenziale. Più anni di vita da pensionati si avranno (o meglio, si possono "stimare") più leggero sarà l’assegno. E questa è la seconda brutta notizia. I coefficienti, come ha ricordato nel suo Libro bianco sul futuro del Welfare il ministro Maurizio Sacconi, da soli non basteranno a stabilizzare la spesa pensionistica nel lungo periodo ma una buona mano la daranno senz’altro.
Secondo il rapporto Cer-Cnel (è stato presentato due settimane fa) grazie all’applicazione dei coefficienti i tassi di sostituzione iniziano a ridursi sensibilmente attorno al 2020, vale a dire verso la fine della transizione al contributivo puro. Anche le simulazioni della Ragioneria dello Stato- riportate nel grafico - danno bene l’idea di quello che accadrà.
«L’applicazione dei coefficienti di trasformazione periodicamente aggiornati ha effetti rilevanti - spiega Sergio Ginebri, docente di economia all’Università del Molise e tra gli autori del rapporto Cer - ma una volta entrati in vigore andranno subito sottoposti a una forte manutenzione».
A differenza dei coefficienti svedesi, quelli italiani tengono conto dell’aspettativa di vita media e non sono legati alla coorte dei singoli lavoratori che passano alla pensione, sono uguali per uomini e donne (nonostante la diversa speranza di vita tra i due sessi) e non tengono neanche conto delle diverse mansioni affrontate nel corso della vita attiva (chi lavora alla scrivania e in un ambiente protetto ha una speranza di vita superiore di chi lavora in una cava). «I coefficienti, come prevede la legge, verranno aggiornati ogni tre anni- aggiunge Ginebri - e tutti questi aspetti critici dovranno essere considerati con grande attenzione e una corretta informazione».
Anche per non vanificare il vero significato dei coefficienti di trasformazione: uno strumento che ha, tra le altre, la finalità di incentivare il posticipo della pensione, visto che - come mostrano gli esempi- migliori livelli di copertura possono essere garantiti con l’allungamento della permanenza al lavoro. In ogni caso, le simulazioni sugli effetti dei coefficienti di trasformazione rilanciano fortemente il ruolo della previdenza complementare: solo con l’integrazione derivante dai fondi si potrà garantire un adeguato livello di copertura dell’ultima retribuzione.