Elsa Fornero, ཿIl Sole-24 Ore 1/6/2009;, 1 giugno 2009
LA VERA SVOLTA? CONTRIBUTIVO A TUTTI E USCITA FLESSIBILE - U
na nuova riforma delle pensioni: sì o no? In questi termini la domanda è ovviamente mal posta, perché troppo drastica. Bisognerebbe infatti almeno chiedersi: «In vista di quali obiettivi?». Risparmi di spesa nell’immediato prodotti da nuovi "ritocchi" all’età di pensionamento o un più deciso aggiustamento strutturale, che renda più credibile il percorso di riforma già intrapreso e meno probabile un nuovo aggiustamento tra pochi anni?
Quel che oggi si propone di fatto è un nuovo innalzamento dell’età pensionabile, che riallinei la dinamica a quella prevista dalla riforma Maroni del 2004, poi "allentata" dal sistema delle "quote" (somma di età e di anzianità contributiva) introdotto dal governo Prodi nel 2007. La misura condurrebbe verosimilmente a risparmi di spesa dell’ordine di qualche miliardo, ma non potrebbe, a questo punto, recuperare i circa 10 miliardi di costo complessivo dell’ammorbidimento dello "scalone"; è presumibile inoltre che diverse imprese, con mano d’opera in eccesso, ricorrerebbero di più alla cassa integrazione o ai licenziamenti.
Il punto importante è che non vale la pena intervenire nuovamente sul sistema pensionistico per un risultato tutto sommato modesto. Può darsi che abbiano ragione coloro che sostengono che i tempi di crisi forniscono le occasioni migliori per fare le riforme, ma allora l’obiettivo non può limitarsi a una nuova correzione delle pensioni di anzianità. L’obiettivo deve, e può facilmente, essere più ambizioso.
L’occasionevera per un nuovo intervento non è data tanto, o soltanto, dalla crisi ma piuttosto dalla condanna della Corte Europea di Giustizia della differente età di pensionamento di uomini e donne nel pubblico impiego, una differenza che la Corte considera lesiva, a scapito degli uomini, della parità di trattamento.
La differenziazione per legge dell’età pensionabiletra uomoe donna rispecchia in realtà un principio superato e controproducente, e il vantaggio accordato alle donne tradisce una concezione sminuente del lavoro femminile. Occorre invece dare a entrambi la possibilità di scegliere, liberamente e responsabilmente, entro una certa fascia di età, il momento nel quale cessare la vita lavorativa, magari graduandolo nel tempo più di quanto non accada oggi. Questo principio di flessibilità deve essere associato necessariamente alla variabilità individuale della pensione, ossia al metodo contributivo, che si basa sulla corrispondenza tra ciò che si è versato (contributi) e ciò che si riceverà (prestazioni), che dipende ovviamente dalla lunghezza del periodo di quiescenza.
Per conseguenza, se si vuole intervenire ancora sulle pensioni, l’unico modo serio e credibile per farlo è di applicare concretamente e fin da subito questo metodo a tutte le anzianità future, indipendentemente dalla durata residua della vita lavorativa, rendendo la nuova regola immediatamente operativa per tutti gli futuri anni di lavoro, a prescindere dall’anzianità pregressa, secondo quel prorata che non si ebbe la forza di introdurre nel 1995.
Oggi, a distanza di 15 anni dalla sua introduzione, il metodo contributivo potrebbe applicarsi a una fascia di età compresa tra i 61 e i 69 anni di età (o tra 62e 70), uniforme tra i generi, e tra tipologie di lavoro. Dovrebbe pertanto riguardare non soltanto i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, ma anche gli autonomi, e i liberi professionisti, che si aggrappano invece a una autonomia - peraltro non sempre esercitata in modo responsabile nei confronti delle generazioni giovani e future - per mantenere formule pensionistiche squilibrate. La fascia, poi, non dovrebbe essere fissa, ma piuttosto indicizzata alla durata della vita.
Oltre che a ottenere risparmi nel breve periodo, un provvedimento lungo queste linee servirebbe a restituire credibilità alla riforma strutturale del 1995, una credibilità minata dal troppo lungo periodo di transizione, e dalle molte voci che ne paventano l’eccessiva severità (anche la commissione che doveva studiarne gli effetti non è mai stata istituita). E servirebbe anche a riprendere il filo interrotto della previdenza integrativa, che la crisi finanziaria ha di fatto paralizzato, senza però renderla meno necessaria.
In sostanza, misure che consentano, in tempo di crisi, di risparmiare risorse in una voce importante del bilancio pubblico (spesa pensionistica) per allocarle là dove maggiore ne è il bisogno (nell’ambito dello stesso sistema di welfare proprio la crisi rende acuti i bisogni di sostegno al reddito per il caso di perdita del lavoro) sarebbero certo le benvenute, ma non risolutive. Non metterebbero cioè il sistema al riparo dalla necessità di nuovi interventi a breve, e rischierebbero di generare forti contrasti sociali perché le riforme pensionistiche sono generalmente male accolte, e ancor più in tempi di crisi. Il fatto è che, crisi o non crisi, l’ottica di breve periodo mal si addice al sistema pensionistico, mentre l’agenda politica ne risulta spesso eccessivamente condizionata.