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 2009  maggio 28 Giovedì calendario

LA CAMPAGNA DEL LINGOTTO E LA LEZIONE PIRELLI


IL RUOLO DEI LAVORATORI - L’azienda milanese tentò invano di rilevare Continental: il deal fallì per l’opposizione di dipendenti e sindacati - IL NEGOZIATO - Ai torinesi non basterà trattare con i politici La gara si gioca contro un capitalismo di tipo «orizzontale»

Nelle ore decisive della trattativa per Opel, torna utilissima la lezione di una analoga iniziativa italiana del passato, la scalata di Pirelli nei confronti della Continental, purtroppo fallita.
Mai come in questi giorni, Sergio Marchionne e la Fiat devono evitare di commettere esattamente gli stessi errori in cui era incorso Leopoldo Pirelli tra il ’92 e il ’93, trattare cioè i destini di un’importante impresa tedesca partendo "dall’alto", con un negoziato i cui contenuti restano in gran parte segreti, confinato al vertice del Paese, il capo del governo, un paio di ministri e di banchieri, ed esteso alla sola proprietà del l’azienda. Trascurando cioè la base dell’impresa e della società: non solo i consigli di fabbrica e le rappresentanze sindacali, ma anche i manager dell’azienda da acquisire.
Nel ’92 con le eleganti consuetudini che distinguevano il suo stile di business, Leopoldo Pirelli aveva ottenuto tutto il sostegno di cui aveva bisogno ai più alti livelli della politica e del capitalismo tedesco, a cominciare dall’allora potentissima Deutsche Bank.
Ma i manager di Continental, i veri manovratori dell’impresa di Hannover, destinati a essere le prime vittime della scalata dei milanesi, si mobilitarono insieme ai dipendenti e alle rappresentanze sindacali, facendo cambiare posizione sia alla politica locale, sia alla banca, sia infine al governo federale, con conseguenze traumatiche per il gruppo milanese.
La stessa combinazione deve essere evitata con Opel, i cui manager e dipendenti hanno avuto finora facile gioco nel lamentare l’assenza di comunicazioni da parte degli italiani.
Alla vigilia delle elezioni federali, gli stakeholder tedeschi sono stati in grado di esercitare una forte pressione politica sia sul partito socialdemocratico, l’Spd, sia a livello locale su quello cristiano democratico, tale da ostacolare l’offerta Fiat. In questo caso il ruolo della banca che ostacola la partita degli italiani è giocato da Commerzbank.
Per evitare questi rischi nel percorso negoziale è sufficiente conoscere la diversità nella cultura sociale tedesca. Seppur poco trasparente in termini anglosassoni, quello tedesco non è un capitalismo solo "verticale" come quello italiano o americano, dove spesso è sufficiente decidere con i capi di governo e delle banche dentro stanze chiuse, ma ha una forte componente "orizzontale", con manager e lavoratori in grado di influenzare la politica.
A differenza di Pirelli, Fiat ha mobilitato – oltre alla potenza di fuoco del consulente Roland Berger, per altro accusato di conflitti d’interesse su più fronti – agenzie di comunicazione tali da aver accesso ai giornali popolari tedeschi più diffusi, veri professionisti dei mass media.
Ma in Germania la cultura sociale non si risolve nel circuito politica-mass media come in Italia. importante infatti anche la comunicazione di sostanza, rivolta direttamente ai lavoratori.
Risolto questo problema la trattativa sarà molto più facile: anche in Germania Sergio Marchionne gode della reputazione di essere uno tra i migliori manager del mondo, mentre il concorrente di Fiat, Magna, è considerato un’azienda povera di credibilità dal punto di vista delle strategie industriali e sostenuta da finanziatori inquietanti, dietro ai quali si stringerebbero alleanze tutte da capire sull’asse Vienna-Mosca, nonché un intreccio altrettanto enigmatico di rapporti tra gli esponenti socialdemocratici dell’era Schroeder e i nuovi finanziatori russi.
Ma intanto, impegnato tra i due lati dell’Atlantico, Sergio Marchionne non ha ancora potuto parlare direttamente ai lavoratori di Ruesselsheim che avevano richiesto un incontro a gran voce. La decisione del manager Fiat è stata subito strumentalizzata dai manager di Opel e rilanciata alla politica locale.
Chi ha avuto modo di ascoltare gli argomenti dei sindacati di Opel sa bene che c’è anche un onesto pragmatismo nascosto dietro un tasso di sindacalizzazione ossessivo e un linguaggio oltranzista. A quei lavoratori non basta parlare il linguaggio della politica, né offrire visioni futuribili affascinanti: si deve invece negoziare offrendo contropartite concrete.
Naturalmente la socializzazione delle decisioni industriali in Germania non è ingenua. Dietro di essa si nascondono interessi politici così forti da aver costretto per 30 anni troppe imprese all’immobilismo ed aver reso la trasformazione industriale a cavallo del 2000 molto più tardiva e dolorosa del necessario. Ma chi conosce il Paese, sa che anche quando si muove la Germania lo fa dal basso e non solo dall’alto. Ben più dei governi, sono state le imprese e sindacati a stringere accordi che hanno modificato il modello produttivo tedesco, rendendolo di nuovo il maggior esportatore del mondo. Non ci si deve sorprendere dunque se le trattative industriali non devono essere condotte all’italiana, in salotti chiusi, o nei soli palazzi delle banche e della politica, ma anche di fronte ai lavoratori, in una società in cui il potere è realmente decentrato.
Altra questione è se si disponga delle energie necessarie ad adeguarsi a un sistema sociale tanto complesso. O ancor più se valga la pena di farlo per coinvolgersi in un’azienda il cui orgoglio non è spiegabile con la realtà dei fatti. Non è un caso se tutte le grandi imprese dell’auto tedesche finora si sono tirate indietro.