Giovanni Negri, Il sole 24 ore 28/5/2009, 28 maggio 2009
IL BICCHIERE MEZZO PIENO DEL PROCESSO CIVILE
Qualche volta meglio meno ma meglio. Il governo abbandona velleità da «grande riforma della giustizia civile» e si affida a un intervento limitato. Una scelta fatta anche sul processo penale, assai più seguito dai grandi media. E per stavolta niente commissioni di studio, presiedute magari da pur autorevoli giuristi, che presentano, puntuali al termine della legislatura, progetti «organici» di riscrittura dei codici, destinati a impolverarsi a futura memoria. Tra l’altro in un clima tra partiti certo non favorevole a riforme di ampio respiro, stretto tra insulti e bassezze da siti di propaganda.
Meno ambizioso nella forma, l’intervento sul processo civile non è però minimalista nelle intenzioni. Perché, così insiste anche il ministro della Giustizia Angelino Alfano, l’obiettivo è intaccare il vero debito pubblico della giustizia italiana costituito dalla mole di cause arretrate e destinate ad attendere negli archivi. Due numeri, per tutti: nel solo settore civile, cruciale per cittadini e imprese, lo stock di cause giacenti è cresciuto dalle 622mila del 1958 a 5 milioni 381mila del 2007. Un labirinto degno di Kafka, o se preferite, Pirandello.
Su questo piano va valutato, senza pregiudizi, questo primo passo. Come senza pregiudizi, una volta tanto in materia di giustizia, ha proceduto la maggioranza affossando nel 2009 quel processo societario che nel 2004 questa stessa maggioranza intendeva fare diventare «il faro» del nuovo Codice di procedura civile.
Se il nuovo processo civile istituisce un meccanismo per tagliare i carichi di lavoro della Cassazione, se mette in campo sanzioni per scoraggiare chi nel processo intende solo perdere tempo, se istituisce un procedimento sommario per arrivare alla decisione in tempi brevi nelle cause di minore valore, la prima valutazione può essere positiva. Come positivo è il giudizio sulle deleghe che puntano a ridurre il numero di riti, anomalia tutta italiana, e rilanciare la conciliazione.
Maggiori perplessità invece dall’innalzamento delle competenze dei giudici di pace, che già hanno dato segnali di affanno negli anni passati, o la previsione di una testimonianza in forma scritta che presta il fianco ad abusi non facilmente evitabili.
A pesare però è anche quello che manca. E non è poco. Una più efficiente distribuzione dei tribunali, accorpando i piccoli ai grandi, per esempio, o un limite ai magistrati fuori ruolo destinati a incarichi extragiudiziari. Oppure, ancora, una più efficace capacità di riscuotere le spese di giustizia o la volontà di riformare una volta per tutte l’avvocatura dopo avere più volte rivisto l’ordinamento della magistratura. Infine, dovrebbe arrivare, in tempi rapidi, una decisione definitiva sul processo telematico: grande bluff comune a più amministrazioni o strumento effettivo di rilancio, come alcune esperienze (Milano e Napoli) possono lasciare pensare? Interventi a elevato costo politico, che è da vedere se il Governo intenderà pagare.
Ma a essere assente, responsabilità di tutte le forze politiche, è la volontà di considerare la giustizia, anche quella civile, un’emergenza nazionale che, come le riforme istituzionali di cui pure il Paese ha altrettanto bisogno, necessita di un clima da costituente. Da vera bicamerale, senza tradire distinzioni che non vanno annacquate, ma per un momento accantonate. Un tempo di collaborazione tra maggioranza e opposizione, ma anche tra magistrati e avvocati. Perché la competitività del Paese passa anche di qui. Invece il processo civile, anche in questo caso, è stato oggetto di scontri e polemiche. In Parlamento come tra gli operatori. Riflessi pavolviani, forse, a cui ci siamo un po’ tutti abituati. Ma è di queste abitudini che il Paese non ha bisogno. E neppure la giustizia.