Fabrizio Goria, Il Riformista 02/06/2009, 2 giugno 2009
Il requiem di General Motors è suonato. La corsa della più grande casa automobilistica statunitense finisce nello stesso tribunale dove un mese fa ha dichiarato bancarotta Chrysler
Il requiem di General Motors è suonato. La corsa della più grande casa automobilistica statunitense finisce nello stesso tribunale dove un mese fa ha dichiarato bancarotta Chrysler. Con GM declina uno dei maggiori simboli dell’American way of life. General Motors fino a domenica scorsa era una realtà da quasi 9 milioni di vetture prodotte, 284 mila dipendenti in tutto il mondo, oltre 30 marchi gestiti e più di 120 stabilimenti sparsi nel pianeta. Tutto nasce il 27 settembre 1908 a Flint, nel Michigan, quando William C. Durant decide di formare un nuovo gruppo composto da Buick, Oldmobile, Cadillac, Elmore e Oakland (poi Pontiac): nasce la General Motors. Il risultato è qualcosa di inaspettato per gli americani. Nel pieno della fase di motorizzazione, l’obiettivo di GM è quello di essere il meglio. Nei primi anni di vita della società si conia il motto che l’accompagnerà fino ai giorni nostri: Mark of Excellence. La sede ufficiale di GM diventa Detroit e la città prende il nome di Motown, a testimonianza del rapporto uomo/auto. GM acquista la società di autobus Yellow Coach e crea la Greyhound Lines, la principale compagnia di trasporti interstatali via bus. Sono gli anni Trenta quando Durant entra nel mercato ferroviario acquisendo l’Electro-Motive Corporation, costruttore di carrozze a motore, e la Winton Engine, fornitore di motori. GM crea le prime locomotive diesel, capaci di collegare le zone più remote degli Stati Uniti senza il bisogno di energia elettrica. Intanto, Detroit compra Opel in Germania, Holden in Australia e crea le divisioni GM Sud America e Sud Africa. Nel 1933, GM diventa il primo costruttore di auto al mondo (e resterà il numero uno fino al 2007, quando cede lo scettro ai giapponesi di Toyota dopo 74 anni di primato indiscusso). La corsa del gruppo non frena nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli stabilimenti della britannica Vauxhall, controllata da GM, producono i tank Churchill che daranno una mano alla vittoria degli Alleati. Nel 1953 Charles Erwin Wilson, allora presidente di GM, venne nominato Segretario alla Difesa dal presidente americano, Dwight D. Eisenhower. Durante il suo mandato, Wilson pronunciò la frase-simbolo di GM in quegli anni, quando da sola la sua produzione valeva 3 punti di Pil americano: «Per anni ho pensato che ciò che era buono per la nazione fosse buono per la General Motors e viceversa». La compagnia continua a macinare utili, acquista a titolo definitivo Chevrolet e Daewoo, riprende il controllo della tedesca Opel (venduta durante la guerra) nel secondo Dopoguerra e nel 1955 diventa la prima società americana a fatturare un miliardo di dollari in un anno. Negli Usa non c’è giovane che non desidera entrare in GM. La corsa del gruppo continua senza sosta ed iniziano anche i primi programmi di previdenza sociale per i dipendenti, tramite i fondi pensione. Gli anni Sessanta e Settanta sono all’insegna del boom economico e, secondo uno studio del National Bureau of Economic Research, nel 1973 sei americani su dieci guidano un’auto General Motors. Nel 1977 nasce a Detroit quello che ancora oggi è il simbolo della società, il Reinassance Center, sette grattacieli per celebrare i successi di General Motors. Nel RenCen, come lo chiamano gli americani, c’è spazio per il quartier generale della major, situato nell’edificio più alto, 220 metri. Ma dall’alto dell’ufficio presidenziale, non ci si rendeva conto del cambiamento dei tempi in procinto di arrivare. Negli anni Ottanta, gli anni di Ronald Reagan, il mercato americano vive uno dei suoi migliori periodi. General Motors è sinonimo di qualità, ma qualcosa vacilla. Viene nominato Roger B. Smith al vertice di GM fino al 1990. La rete televisiva CNBC lo ha definito «il peggior amministratore delegato di tutti i tempi». Infatti, sono migliaia i dipendenti del gruppo che si licenziano in totale dissidio con la presidenza. Cominciano i primi scioperi nello stabilimento di Flint e si inizia nel 1982 il programma GM10, secondo la Cnn «la più grande catastrofe dell’industria americana». Il progetto era semplice: creare una vettura di media grandezza per i marchi Chevrolet, Pontiac, Oldsmobile, Buick e - successivamente all’acquisizione avvenuta nel 1989 - Saab. L’investimento iniziale fu di 7 miliardi di dollari ed occupò GM per oltre 8 anni. Dopo sprechi e ritardi, nel 1990 il presidente Smith ammette che su ogni vettura del progetto GM10 ci sono perdite per oltre 2.000 dollari. La notizia porta alle dimissioni di Smith e al licenziamento di 20 mila persone. In quegli anni comincia anche a crearsi il fenomeno dei benefits, rappresentato dall’Other Post Employment Benefits Fund (OPEB), uno dei primi fondi a subire un grande processo di deleveraging a seguito della crisi dei titoli tecnologici del 2000. Il sindacato United Auto Workers partecipa ad un processo di rinnovo contrattuale con John F. Smith, il nuovo amministratore delegato. Le pretese sono elevate, ma il management accorda tutte le richieste: dall’assistenza sanitaria gratuita allo sconto del 25 per cento su ogni vettura comprata, dai trasferimenti ferroviari a prezzo ridotto a un periodo lavorativo con molteplici possibilità di ferie pagate dalla società. Ma è dal 2002 in poi che iniziano le perdite del fondo pensione di GM, capace di bruciare 39 miliardi nell’arco di sette anni. La crisi dei mutui subprime ha poi fatto il resto, riducendo al lumicino le speranze di una ripresa. Rick Wagoner, amministratore delegato di GM dal 2003 allo scorso 30 marzo, punta ogni investimento sugli Sport Utility Vehicle (Suv) acquisendo il marchio Hummer e lanciando 28 fuoristrada nell’arco di 6 anni. Il mercato automobilistico, però, cambia velocemente i suoi gusti e la domanda di GM nel 2008 si contrae fino al 48 per cento rispetto l’anno prima. La crisi si acuisce e costringe il Tesoro americano a intervenire. Lo scorso dicembre sono forniti 15,4 miliardi di dollari per evitare il fallimento, ma non bastano. Wagoner viene rimpiazzato da Fritz Henderson alla guida della società all’inizio di aprile. Dopo neanche due mesi, si aprono le porte della bancarotta, con 172,81 miliardi di debito, certificati dal Tribunale fallimentare di Manhattan.