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 2009  giugno 02 Martedì calendario

DOPO GM IL CAPITALISMO NON SARA’ PI LO STESSO


Dopo il fallimento della General Motors, gli Stati Uniti non saranno più gli stessi. E forse il capitalismo non sarà più lo stesso. In 77 dei suoi 101 anni di vita, questo colosso dell’industria è stato il maggior produttore di auto al mondo, al tempo stesso pilastro e simbolo del benessere americano, al punto che, negli Anni 50, il suo presidente di allora, Charles Wilson, divenuto ministro della Difesa, candidamente affermò che gli interessi dell’America coincidevano perfettamente con quelli della sua maggiore industria automobilistica.
La General Motors è stata affondata precisamente da questa sua convinzione di essere indispensabile, insostituibile e comunque centrale, punto di riferimento fisso in un mondo e in un’industria che stavano invece mutando rapidamente. La sua storia degli ultimi trent’anni è una lunga sequela di errori strategici, di problemi individuati correttamente e di soluzioni che hanno mancato il segno, di strategie mal eseguite, della difficoltà dei grandi e potenti di autocriticarsi, della facilità a cadere in una forma di arroganza.

Le pensioni come i salari: l’accordo insostenibile

Il colosso di Detroit comprese il carattere profondamente innovativo del modo di produzione giapponese che stava rivoluzionando il settore dell’auto ma non riuscì ad assimilarlo, limitandosi quasi sempre a un’imitazione superficiale: un tipico errore nelle prime fasi della «rincorsa» ai costruttori nipponici, pionieri nell’uso dei robots, fu di mettere troppi robots sulle linee di montaggio creando confusioni e ritardi. Sovente eccellente nella ricerca, non riuscì a trasferire pienamente alle sue consociate americane le innovazioni tecnologiche introdotte sulle auto che produceva in Europa e il suo innovativo «progetto Saturno» non ha mai prodotto auto di grande diffusione. La General Motors è anche esempio e simbolo di altri due più generali fallimenti americani. Il primo riguarda il lavoro: il sindacato americano dell’auto, che colse negli stabilimenti di Detroit i suoi successi maggiori, è rimasto impotente e, tutto sommato, indifferente di fronte al chiarissimo declino degli ultimi trent’anni, preoccupato solo di conservare un accordo, in realtà insostenibile, che garantiva ai suoi membri in pensione aumenti di reddito commisurati agli aumenti dei salari, una formula pesantissima che ha contribuito fortemente al tracollo finanziario.
Il secondo fallimento riguarda il capitale e, più in generale, i meccanismi di governo delle grandi società: la General Motors, infatti, rappresenta uno degli esempi più chiari di frammentazione della proprietà, tipica del modello delle public companies. Con azioni diffusissime, nessun azionista contava molto; il titolo d’altra parte non contava molto nel patrimonio dei risparmiatori e dei fondi di investimento; per conseguenza, il potere si è concentrato nelle mani di un’élite manageriale che non temeva l’opposizione nelle assemblee e di fatto non rispondeva a nessuno.
Ciò che era bene per la General Motors non era forse necessariamente bene per l’America, ma ciò che oggi è male per la General Motors è sicuramente una grossa e difficile sfida che l’America non può vincere guardando semplicemente a parametri finanziari e a un rinnovamento strategico e tecnologico. E non è solo l’America che deve meditare su quello che sta succedendo a Detroit: si comincia oscuramente a comprendere che la società che sta uscendo da Internet non vuole adattarsi all’auto e che sarà l’auto a doversi adattare alla società di Internet.

Sull’America l’onda d’urto del colosso che affonda

Nei paesi ricchi, l’automobile non è più come una volta un simbolo di status sociale, per cui il tipo di auto che hai individua abbastanza esattamente quale è la tua professione e quale è il tuo reddito; l’auto è sempre più spesso intesa come un anonimo e sostituibile cavallo da tiro che deve costare il meno possibile, risultando per giunta assolutamente sicuro ed ecologico, e al quale non ci si affeziona più di tanto. E i colossi dell’auto non saranno più imperi industriali dai confini rigidamente determinati e ordinati gerarchicamente, ma potranno assomigliare a coalizioni flessibili, spesso legate a singoli progetti, attorno a nuclei centrali di eccellenza tecnologica e organizzativa.
Al di là di questi effetti di lungo periodo, l’onda d’urto della General Motors che affonda non potrà non lasciare la sua impronta negativa sulla già difficile congiuntura americana. Pur nella sua attuale fase terminale, la società di Detroit (che è scesa in America a una quota di mercato inferiore al 20%, invece del suo tradizionale 40-50%) conta più di 250 mila dipendenti e nel 2008 ha prodotto 8 milioni di autoveicoli con 14 marchi diversi in otto Paesi, totalizzando un fatturato di quasi 150 miliardi di dollari; al suo fondo pensioni sono iscritte quasi mezzo milione di persone che dipendono da General Motors non solo per il loro reddito mensile ma anche per l’assistenza sanitaria. Nel 2008 ciò che ha venduto a 100 le è costato 120.
La chiusura di ulteriori impianti e un difficile periodo post-fallimentare si riverberano su quasi ogni comparto dell’economia americana. Per la rinascita di quest’economia, alla quale tutto il mondo guarda con attenzione e con ansia, occorre partire - e non solo con formule finanziarie - con un progetto di industria, economia e società. Di un simile progetto per ora non si vedono molti segnali.