Enrico Bellone, la Repubblica 1/6/2009, 1 giugno 2009
SE LA SCIENZA RESTA FIGLIA DI UN DIO MINORE
Nel panorama del ´900 Einstein andrebbe messo sullo stesso piano di Joyce e Picasso
Per Croce le menti profonde coltivano filosofia e storia, gli ingegni minuti invece l´aritmetica
S´affollano attorno a noi problemi forti: dal caso Englaro al testamento biologico, dalle cellule staminali embrionali al ruolo del nucleare civile, dagli ogm alla teoria dell´evoluzione e alla difesa dell´ambiente. Temi, questi, sui quali la scienza ha (o dovrebbe avere) voce in capitolo. Ed ecco che molti laici e religiosi si pongono domande di base: sino a che punto la scienza deve essere libera? La scienza è cultura o si riduce a un gruppo di tecniche? Domande non nuove, comunque. Alle quali vale tuttavia la pena di prestare nuova attenzione: abbandonando consuetudini popolari sul significato stesso della parola cultura.
Proviamo dunque a chiederci quali sono state le vette del pensiero umano durante il Novecento. Cominciamo, per esempio, dal 1905. In quei mesi Picasso dipinge un mondo di giocolieri e saltimbanchi, Joyce comincia delineare la figura di Stephen Dedalus, Einstein sottopone a revisione i concetti di spazio e tempo, Ramón y Cajal approfondisce le conoscenze sul neurone. E perché mai collocare due scienziati accanto ad un grande pittore e ad un geniale romanziere? Ecco la mia risposta. L´opera einsteniana ha prodotto almeno due risultati di base. In primo luogo, essa ha modificato in modo profondo le categorie di spazio e di tempo che tutti gli esseri umani, da sempre, utilizzano nella loro vita quotidiana. In secondo luogo, tale modificazione ha fatto sorgere una nuova rappresentazione dell´intero Universo e delle sue origini. Ce n´è abbastanza per suggerire che Albert Einstein è stato uno dei maggiori filosofi del Novecento, che le sue tesi hanno svolto un ruolo eccezionale nella storia della cultura umana e che non vi è alcunché di strano nel collocarlo accanto a Picasso o a Joyce. Analoghi argomenti valgono per l´opera di Ramón y Cajal: le sue ricerche hanno effettivamente sconvolto secoli di meditazioni sul significato di parole come "vita", "pensiero", "memoria" o "coscienza".
Se si accetta il mio punto di vista, allora si approda ad altri risultati che hanno a che fare con il pensiero del passato. Pensiamo all´Ottocento: accanto a svolte culturali generate dalla pittura degli impressionisti o dalla filosofia di Hegel troviamo i mutamenti causati dalla teoria di Darwin. E nel primo Seicento incontriamo Galilei, che trasforma l´intero orizzonte delle nostre conoscenze sul cielo, insieme a Caravaggio e a Shakespeare. Sto insomma parlando di una cultura unitaria che nel suo evolversi tumultuoso e imprevedibile ha suscitato e continua a suscitare dispute anche appassionate, sia in sede laica che in sede religiosa. Basti ricordare il processo a Galilei, l´accusa di oscenità contro Joyce o il discredito che si semina su una scienza che si vorrebbe ridurre ad un agglomerato pauroso di tecniche e manipolazioni dell´uomo. So bene che l´idea stessa di una cultura unitaria è vista con diffidenza. Spesso si preferisce infatti discutere di due culture, una di stampo umanistico e l´altra di stampo scientifico: esattamente cinquant´anni fa Charles Snow tenne la storica conferenza a Cambridge su Le due culture e la rivoluzione scientifica. Ebbene, dove sarebbe collocato il confine tra la prima e la seconda? Quando si cerca il disegno di questo ipotetico confine, si finisce a volte per tornare a quei pensatori antichi i quali erano convinti della superiorità della sapienza filosofica: solo il sapiente degli aristotelici scrutava le pratiche umane dall´alto della sua filosofia e coglieva, di quelle pratiche, la ragion d´essere e l´essenza ultima. C´era indubbiamente, per costoro, anche una cultura scientifica: ma spettava al sapiente dirigere i giochi. Ovvero: due culture, certo, ma con la clausola secondo cui una di esse era superiore all´altra. Il sapiente nel Novecento diventa allora, con Husserl, il funzionario dell´umanità: colui che vigila su ciò che gli altri, più in basso, fanno o tentano di fare.
Va subito detto, a questo punto, che l´immagine sapienziale delle due culture facilmente si trasforma in una immagine meno raffinata, assai greve ma capace di attirare dosi massicce di consenso. Ricordo a questo proposito le linee guida di una riforma delle nostre scuole che risale alla metà dell´Ottocento e che, dal mio punto di vista, ancora oggi incide sul sistema educativo nazionale e forma i cittadini della repubblica. In quelle linee guida le due culture diventavano tre (è appena uscito negli Stati Uniti il saggio di Jerome Kagan intitolato The Three Cultures). C´era una "cultura alta" di tipo umanistico, una "cultura marginale" legata alle scienze e una "cultura per vili meccanici" da apprendere negli istituti tecnici. Come sostenne poi Croce, solo le menti profonde coltivano la filosofia e la storia, mentre agli "ingegni minuti" è permesso di interessarsi d´aritmetica o di botanica: interessi che nulla hanno a che vedere con la ricerca della verità.
Abusando della numerologia – due culture, o anche tre – diventa sicuramente agevole il percorso di chi cerca di porre vincoli alla libera ricerca sulla natura. Nessuna censura, insomma, per la "cultura alta": ma controlli severi sulla cultura marginale. Non è forse vero che quest´ultima, una volta assimilata al mondo delle tecniche, può portare a risultati che sono in contrasto con la dignità della persona, con la sacralità della vita, con le istituzioni stesse della democrazia?
Chi predilige questa immagine negativa della scienza ha, da sempre, buon gioco. Se ne accorse – ma era ormai troppo tardi – Galilei. Dopo la condanna egli fece molte note sulla sua copia personale del Dialogo, il grande libro che lo aveva portato alla rovina. Ed è stato un umanista come Eugenio Garin a sottolinearne una. Galilei pensava che la filosofia della natura produce innovazioni, e s´era convinto che queste "novità" potevano addirittura «rovinare le repubbliche e sovvertire gli stati». Coloro che avevano il potere, quindi, rigettavano il nuovo: così, «persone ignorantissime di una scienza o arte» si ergevano a "giudici sopra gl´intelligenti" e li piegavano. A chi parla di due o tre culture e quindi nega l´unicità del sapere umano e pone censure sulla produzione di novità, va allora ricordato quel messaggio che viene a noi dal passato: per entrare nella società della conoscenza è urgente che si ponga fine al processo contro Galilei e che si recuperi l´unità della cultura.