Alessandro Penati, Affari & Finanza, 1/6/2009, 1 giugno 2009
CALCIO IN ROSSO, ECCO COME SALVARLO
Il calcio italiano è malato: stadi vuoti, bilanci in dissesto, continue polemiche, illeciti, e un gioco spesso poco spettacolare. Paradossalmente, proprio quando il calcio, grazie ai diritti televisivi e sponsor planetari, è definitivamente entrato a pieno titolo nell’industria dell’intrattenimento multimediale dove, per l’appunto, spettacolo e profitti dovrebbero farla da padrone. Se per un momento si smettesse di guardare al calcio con gli occhi del tifoso, e si lasciassero da parte stereotipi, pregiudizi, e interessi di parte, si potrebbero prefigurare delle proposte di riforma.
A guardare il quadro normativo, le società calcistiche sarebbero società per azioni come tutte le altre, che offrono servizi – le partite – in concorrenza fra loro, utilizzando giocatori assimilati a normali dipendenti. Un quadro, però, che non trova alcun riscontro nella realtà. Il calcio è ormai un’industria che vende uno spettacolo sportivo. Ma cosa vendono esattamente le "aziende" squadre di calcio? E cosa determina il valore del "prodotto calcio"?
Singolarmente, le società di calcio non sono vere aziende: "il prodotto calcio", lo spettacolo per il quale milioni di persone pagano per vedere, non sono le partite di una squadra, ma il torneo nel suo complesso, il Campionato (o la Champions League). Il valore economico della singola partita di Campionato (biglietti per lo stadio, diritti tv e servizi accessori) non è determinato dalle squadre che vi partecipano, ma dall’importanza che quella partita riveste nel torneo: se per esempio UdineseTorino fosse decisivo per la corsa allo scudetto, varrebbe molto di più di InterMilan che lottano per l’ottavo posto. Il "prodotto" della singola società calcistica, dunque, da solo non vale niente, ma lo acquista nella misura in cui contribuisce al successo dello spettacolo Campionato. E il valore complessivo del Campionato non è dato dalla somma di quello delle singole partite, ma è il risultato di una miscela nella quale entrano l’intensità della disputa, l’incertezza dell’esito finale, il numero delle squadre che possono ambire alla vittoria, e la presenza di personaggi carismatici.
Pertanto, l’industria del calcio dovrebbe essere organizzata e promossa da un’entità unica, che gestisca il prodotto Campionato in modo imprenditoriale, con l’obiettivo di massimizzarne il valore. La recente trasformazione della Serie A in una Lega Calcio, e il prossimo passaggio alla negoziazione collettiva dei diritti televisivi sono un primo passo nella giusta direzione. Superati alcuni ostacoli di natura culturale (per esempio, l’idea che la Serie A dovesse sussidiare i campionati minori è anacronistica quanto chiedere alla Disney di riservare parte dei propri ricavi ai piccoli studi di animazione), bisognerebbe riformare la governance della Lega, la redistribuzione delle risorse, e l’organizzazione del Campionato sempre al fine esclusivo di valorizzare lo spettacolo. Problemi identici sono emersi nello sport professionistico americano 20 anni fa, e risolti a partire dalla National Football League (NFL) agli inizi degli anni ’90. Alcune delle soluzioni sarebbero utili al calcio nostrano.
Gli ingaggi dei calciatori assorbono in media il 62% dei ricavi delle società italiane, e sono la prima causa della loro fragilità economica. In tutte le industrie di servizi che si basano sul talento individuale, ogni consumatore è disposto a pagare di più per chi dimostra qualità superiori alla media; e poiché nel calcio ci sono milioni di consumatori, i giocatori più bravi guadagnano una fortuna. Essendo la componente determinante del valore del prodotto, i campioni riusciranno sempre ad appropriarsi di una quota esorbitante dei ricavi (la gente paga per vedere loro). Si innesca così un circolo vizioso: più si spende per attirare i calciatori bravi, più aumentano i ricavi, più aumentano le pretese dei calciatori, in una rincorsa senza fine. Si citano spesso a modello le squadre inglesi, per gli stadi di proprietà e la capacità di generare ricavi, ma si sbaglia modello. Il calcio inglese fattura il doppio del nostro, riempie gli stadi, i dirittiTv rappresentano il 40% degli introiti (contro il 63% da noi): ciononostante, i calciatori inglesi assorbono il 62% dei ricavi, come in Italia; e quanto a debiti, le società inglesi sono anche più dissestate delle nostre. Il circolo vizioso degli ingaggi vale per tutti i grandi sport di massa.
Per rendere il calciospettacolo finanziariamente sostenibile ci vorrebbe il salary cap americano: un tetto massimo al monte ingaggi delle squadre (non allo stipendio del singolo calciatore), uguale per tutte le società della Lega, agganciato ai ricavi totali del Campionato. Ogni società può sforare il tetto, ma solo con bonus predeterminati, e legati a parametri oggettivi (risultati sportivi, spettatori). Il salary cap non solo assicura un equilibrio finanziario altrimenti impossibile, ma vuole anche ridurre le disparità tra le squadre, aumentando così il numero dei possibili vincitori, l’incertezza del risultato e quindi lo spettacolo. Il valore economico del Campionato dipende dal numero di partite determinanti per il risultato finale. Attualmente, la probabilità che Inter, Milan o Juve vincano il prossimo scudetto è circa l’80%; così ho stimato che solo il 18% delle 380 partite di Serie A è rilevante per l’assegnazione dello scudetto. Provate ad immaginare quanto sareste disposti a pagare per un Campionato dove l’Inter ha sempre 90% probabilità di vincere: molto se siete tifosi dell’ Inter, poco o nulla se siete la stragrande maggioranza dei tifosi. Le squadre dell’ NFL lo hanno capito 15 anni fa: meglio vincere meno, ma partecipare a un campionato ricco, che essere dominatori nel campionato dei poveri.
Visto il generalizzato dissesto economico del calcio europeo, se un Paese importante adottasse il salary cap, tutti gli altri lo seguirebbero. Bisognerebbe inoltre riformare la prassi del "cartellino". Nel bilancio delle società è un’importante attività: ma è un bene immateriale, dal valore spesso fittizio, che incentiva le società ad ingaggiare i calciatori puntando ai guadagni in conto capitale da trading per la durata del contratto (alla sua scadenza vale zero, per via della sentenza Bosma). Per questo è spesso fonte di abusi, nonché di assurdi profitti per gli agenti. Meglio passare a normali contratti professionali che prevedano una penale per anticipata rescissione, definita però al momento della firma del contratto e legata a parametri oggettivi, come durata residua del contratto, stipendio, risultati della squadra. Si guadagnerebbe in trasparenza, oltre a ridurre il costo dei calciatori.
Ma non bastano i campioni per riempire gli stadi e tenere incollati al televisore milioni di spettatori. Ci vuole il bel gioco, l’agonismo, la contesa. Oggi, la qualità delle partite soffre anche perché una vittoria ottenuta con un gol fortunoso, o grazie a un errore arbitrale, vale come un sonoro cappotto. « la dura legge del calcio», sento dire spesso. Ma è una legge che uccide lo spettacolo e alimenta stucchevoli polemiche sugli arbitri. Il rugby suggerisce una soluzione: si potrebbe premiare con 1 punto aggiuntivo la vittoria con almeno 2 gol di scarto (penalizzando di 1 punto l’equivalente sconfitta): quindi, 0 punti per chi perde con 2 o più gol di scarto, 1 punto per le altre sconfitte, 2 al pareggio, 4 alla vittoria di misura e 5 a quella piena. Sarebbe la fine dei "ragionieri del gol", e renderebbe gli errori arbitrali – inevitabili meno influenti.
L’ultima riforma dovrebbe riguardare la struttura del Campionato. Ogni anno, in Serie A si giocano 380 partite: solo una frazione è determinante per qualche risultato finale; la maggioranza si trascina nella noia. E’ un fatto che tutti gli spettacoli sportivi a squadre di maggior richiamo prevedano l’eliminazione diretta: il match race della Coppa America è riuscito a dare un grande pubblico perfino alla vela. L’enorme successo di Champions League e Fifa World Cup è dovuto più al formato che ai giocatori, che sono gli stessi del Campionato. Tutti i grandi sport professionistici americani assegnano il titolo con questa formula. E’ possibile immaginare un Campionato di calcio a 20 squadre che assegni scudetto, posti in Europa e retrocessione con gironi finali di scontri diretti. E dove tutte le squadre giochino tra le 28 e le 32 partite: meno delle attuali 38, ma il Campionato sarebbe molto più spettacolare. Se l’obiettivo è il valore dello spettacolo, non serve prevedere un numero uguale di partite per tutti, anche perché le risorse di ogni squadra dipenderebbero dai ricavi complessivi del Campionato.
Ma questa è teoria. Potrebbe diventare realtà solo se l’obiettivo dei Presidenti delle squadre nostrane fosse veramente quello di valorizzare lo spettacolocalcio, sportivamente ed economicamente. però lecito dubitarne. A volte sembra che il calcio sia per loro solo uno strumento di visibilità personale, funzionale al grande suq dell’economia delle relazioni e della politica. O anche solo allla soddisfazione di un ego smisurato.