Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 30 Sabato calendario

DA PENTITO A STROZZINO CON I SOLDI DELLO STATO


Lo Stato lo protegge, lo «coccola». Gli dà stipendio e un bel po’ di soldi. Collaboratore di giustizia, lo definiscono: un pentito della ”ndrangheta. E lui che fa? Impresta a usura i soldi dello Stato. Un’accusa che ieri il tribunale di Cuneo ha tradotto in una condanna a otto anni e dieci mesi.
Il gruzzolo arrivato dal ministero della Giustizia avrebbe dovuto servirgli ad aprire un laboratorio artigianale, a rifarsi una vita, con un nome nuovo, lontano dalle cosche e dalle loro vendette.
Quei soldi, il pentito li «mette a disposizione» di un pizzaiolo. Gente semplice che abita a Borgo San Dalmazzo, cittadina alle porte di Cuneo. In pochi mesi il debito aumenta in modo esponenziale, arriva a centomila euro. Il pizzaiolo, nato in Argentina, cittadino italiano, è disperato. Ha paura. I suoi figli vengono minacciati. Si sente osservato, seguito. In casa - hanno raccontato i testimoni durante l’udienza - è scostante, depresso, ha scatti d’ira. Fino a quando non regge più la pressione, si sfoga e racconta tutto a chi gli è vicino. Un parente si confida con il parroco del paese, lo aiutano a saldare qualche debito, ma non basta. Chiedono l’intervento del fondo antiusura, la squadra mobile comincia a indagare e arriva al pentito, che viene arrestato con un complice.
La storia è emersa ieri, durante il processo a Cuneo. Aula affollata, due famiglie. Da un lato figli e parenti del pizzaiolo, dall’altra moglie e familiari del pentito calabrese. Il nome è noto, ma il sostituto procuratore dice che no, non si può pubblicare: «Rischia davvero la vita per quello che ha fatto come collaboratore di giustizia». Grazie alle sue confessioni avrebbe permesso di sgominare un clan potente. «Roba da prima pagina dei giornali e apertura dei tg», dicono in tribunale. «Sì, è una responsabilità troppo grande parlarne. Quell’uomo rischia la vita, al pari della sua famiglia», chiosa l’avvocato difensore, Gian Paolo Zancan.
A Borgo San Dalmazzo il pentito arriva una decina di anni fa. Il programma di protezione è tosto, prevede la casa, 1600 euro al mese come indennità speciale di disoccupazione, quindicimila euro perché possa aprire una bottega artigianale. Poco dopo dal Sud lo raggiunge la moglie, quindi altri parenti. Vita normale, si direbbe. Qualche ora al giorno a lavorare come artigiano a Cuneo, le serate trascorse a Borgo San Dalmazzo. E’ qui che stringe amicizia con il pizzaiolo. Si raccontano progetti, le famiglie si frequentano. L’italo-argentino amplia il locale e quando ha bisogno di qualche soldo c’è l’amico che lo aiuta. Roba da poco.
Poi la musica cambia. A fronte dei soldi c’è la richiesta di qualche interesse. Duemila euro in quindici giorni diventano 2600. Ma ci sono da fare altre migliorie al locale: il pizzaiolo chiede 8 mila euro, in cinque mesi diventano 14 mila. Li restituisce. Ancora cinquemila euro, ma questa volta in quindici giorni diventano 11 mila da restituire. «E non gli bastava mai. Mi ha chiesto 1500 euro al mese per due anni. Non ce la facevo più». Una ruota senza fine. L’ultimo conteggio: a fronte di 25 mila euro ricevuti, il pizzaiolo ha debiti per centomila. Le minacce sono di morte, c’è il timore che possano andarci di mezzo i familiari, in particolare alla nipotina.
In aula il pentito arriva scortato. Non permettono che gli si veda il volto. Agenti in borghese lo circondano mentre risponde ai giudici. Si dice innocente. «Mai prestato soldi a usura». Il suo avvocato ne è certo: «Le accuse sono un castello di sabbia. Nulla di concreto. Non un pezzo di carta, non un assegno. Nessun testimone. Solo la parola del pizzaiolo contro quella del mio cliente». Il legale suggerisce un tentativo di truffa allo Stato con la richiesta di risarcimento al fondo antiusura.
L’avvocato del pizzaiolo, Vittorio Sommacal, racconta un’altra storia: «E’ gente semplice e disperata. E poi l’usura funziona proprio così: non uno straccio di carta come prova. Sono soldi che girano, pressioni e minacce per riaverli».
Gli inquirenti ci hanno lavorato a lungo, i familiari del pizzaiolo hanno fornito particolari che hanno convinto i giudici: il pentito deve restare in carcere. Gli otto anni sono per estorsione e usura.
E ora, che ne sarà del programma di protezione e dei sussidi dello Stato? Zancan: «Il programma, ora sospeso, sarà revocato. Ma quell’uomo rischia per davvero la pelle».