Gianluca Di Feo, L’Espresso, 4 giugno 2009, 4 giugno 2009
GIANLUCA DI FEO PER L’ESPRESSO 4 GIUGNO 2009
In volo a caccia dei talebani Aerei spia che setacciano case, strade e moschee con sensori robot. Elicotteri per proteggere i fortini dei parà. Uno schieramento senza precedenti. Così la missione italiana affronta l’estate più calda da Herat
Le pendici dell’Himalaya di notte appaiono ancora più maestose. La luna si specchia nella neve di una primavera che tarda a scaldarsi, riflettendo raggi argentati. Il caccia Tornado sfreccia sull’Hindu Kush, poi sorvola quel cuneo di territorio afgano che si infila nel cuore dell’Asia, costeggiando il Pachistan fino a toccare la Cina. a quasi 5 mila metri d’altezza, ma riesce a scrutare ogni dettaglio: sotto le ali non ci sono bombe, ma una sorta di robot spia. Mette a fuoco i suoi bersagli, li ingrandisce e poi li segue. Mentre l’aereo continua a correre, lanciato a oltre mille chilometri l’ora, il sensore resta incollato alla sua preda: la pedina, passo dopo passo. Nell’oscurità totale l’uomo che sta lavorando in modo sospetto sotto un ponte della Ring Road, la strada che circolarmente unisce tutte le città afgane, non sa di essere inquadrato nell’obiettivo a infrarossi del pilota. Solo molti secondi dopo, l’attentatore sente il rumore del jet: teme di essere stato scoperto, salta su una moto e scappa. Inutile inseguirlo. Ma la sua foto è un’informazione vitale per il convoglio che all’alba dovrà attraversare quel ponte: verificheranno che il visitatore notturno non abbia lasciato trappole esplosive.
questo il volto del conflitto afgano: apparati ipertecnologici contro guerriglieri spesso solitari, armi da guerre stellari contro ordigni letteralmente improvvisati usando vetusti proiettili sovietici e micce da spingarda. E il modo migliore di capire cosa succede è quello di starne lontani. Ossia volare alto. Come fanno i due caccia Tornado italiani, che con il loro robot spia sono diventati indispensabili: tutti gli alleati della Nato li invocano. Ogni giorno vengono fatti decollare dal comando di Kabul e setacciano fino a 50 obiettivi. Sono foto impressionanti, tridimensionali, che individuano una piccola antenna satellitare o un carretto: evidenziano il calore del motore di un camion appena parcheggiato dopo un viaggio o nascosto in fretta nel tentativo di sfuggire agli occhi dei caccia. Nella base di Mazar-I-Sharif, nel nord-ovest del Paese, gli specialisti italiani lavorano senza sosta per analizzare quelle immagini, distinguendo i covi dei talebani dalle stalle, le scuole coraniche dove spesso si formano i kamikaze dalle fattorie, i magazzini dei contadini dai depositi dell’oppio.
In tutto l’Afghanistan il raccolto del papavero sta terminando, poi ricomincerà la stagione della guerra. I talebani e i signori dell’eroina combatteranno per proteggere l’esportazione della droga. Con i loro proventi i guerriglieri fondamentalisti arruoleranno i contadini: ogni chilo di oppio permette di pagare dieci uomini fino all’inverno. "Sarà un’estate caldissima", sentenzia il generale Rosario Castellano, comandante della Folgore e di tutte le truppe Nato nell’Afghanistan sud-occidentale. I parà però non staranno ad aspettare gli attacchi: nel silenzio il governo italiano ha dispiegato un contingente senza precedenti, il più agguerrito dalla fine del Secondo conflitto mondiale. Entro l’estate sul campo ci saranno oltre 3 mila soldati: di questi, 1.300 in prima linea - il triplo di operativi rispetto alla spedizione del governo Prodi - forze combattenti a diretto contatto con i talebani. Avranno una missione ad alto rischio: sbarrare la strada ai talebani che dalla regione di Kandahar si muovono verso ovest per sfuggire alle offensive americane. Per questo la Folgore ha creato una cintura di fortezze: castelli di sabbia che sembrano usciti dalle pagine del ’Deserto dei Tartari’, con nomi che ricordano i romanzi di Kipling. Tra i bastioni di Bala Baluk, Farah, Shouz, Qala E Now sono asserragliati 80 soldati italiani, che escono di pattuglia con l’esercito afgano e rischiano sempre di finire sotto assedio. Ci sono notti in cui i mortai pesanti sparano senza sosta per ostacolare i movimenti dei talebani intorno alle nostre postazioni. E in cui viene chiesto in continuazione l’intervento dei caccia americani per impedire che i parà finiscano intrappolati. Raid che quasi sempre si concludono ’in bianco’, perché i miliziani scappano al solo rombo dei jet, ma che altre volte si trasformano in micidiali bombardamenti. Più a nord, nel distretto di Baghdis, sul confine turkmeno, un altro fortino è attualmente il teatro del confronto più duro. la zona più calda, perché serve per esportare l’oppio. Due gruppi della Folgore, sempre affiancati dalla polizia afgana, partendo dal castello di Bala Murghab stanno potenziando la rete dei controlli. I talebani hanno colto subito il cambiamento. Prima hanno minacciato gli italiani: "Quanti morti volete riportare a casa?". Poi sono cominciati gli attentati: tre in una settimana. E un’incursione a pochi chilometri dal comando di Herat.
Tutte le basi vivono solo grazie all’aiuto dal cielo. Le strade sono troppo pericolose. Processioni di elicotteri - i grandi Ch47 con le doppie eliche - scortati dai Mangusta da combattimento fanno la spola per portare munizioni e personale negli avamposti. Spesso restano fermi sui fortini meno di un minuto, per evitare agguati, poi ripartono a tutto motore. Viveri e acqua molte volte vengono paracadutati dagli Hercules: i quadrimotori rallentano e sganciano piccoli container intorno ai castelli dei parà.
Per gestire elicotteri, cargo e aerei-spia un anno fa è stata creata una task force, la Jatf, guidata dall’Aeronautica e composta da mezzi di tutte le forze armate. Un raro esempio di coordinamento, lodato durante l’ispezione del generale Giuseppe Marani, che ha studiato il modo di migliorare il sostegno al contingente. I più impegnati sono i C-130J Hercules, che fanno la spola dall’Italia via Abu Dhabi dove è stata allestita una struttura che smista tonnellate di merci e migliaia di uomini: in Afghanistan nel 2008 hanno compiuto 687 missioni, quasi due al giorno. Seguono gli elicotteri Mangusta da combattimento, sempre pronti al decollo: 611 azioni lo scorso anno, più di 250 nei primi tre mesi del 2009. "Noi veniamo impiegati come scorta, per aprire la strada ai convogli sulle strade o agli altri elicotteri da trasporto", spiega uno dei piloti: "Serviamo soprattutto come deterrente: quando ci vedono, i talebani preferiscono ritirarsi". Gli ufficiali ci tengono a sottolineare la presenza solo di armi di precisione e le regole di ingaggio severissime, soprattutto nei centri abitati. Perché il problema principale in Afghanistan è capire chi è il nemico. "Prima fanno i contadini, poi si arruolano con i talebani e poi ritornano contadini. Ma gli abiti e le case sono sempre le stesse", sintetizza il generale Castellano.
Chi si occupa a tempo pieno di distinguere tra civili e guerriglieri sono i piloti dei piccoli aerei teleguidati Predator. Restano in volo anche per 20 ore, giorno e notte, senza fare rumore e filmano tutto. Entrano nei cortili, seguono le persone che camminano, setacciano i cassoni dei camion, tallonano le jeep che si riuniscono per traffici sospetti. I Predator sono una presenza discreta, che viola qualunque santuario: mettono il naso nei luoghi della preghiera musulmana o nelle officine dei trattori dove si trasformano furgoni in ordigni kamikaze. Nel container di Herat che guida il Predator pilota e navigatore restano seduti per ore di fronte agli schermi, come se fosse la consolle di un videogioco, mentre davanti a loro scorrono vita e morte dell’Afghanistan: le colonne blindate della Folgore che escono dai fortini, i posti di blocco della polizia afgana, i bambini che giocano con gli aquiloni, i Tir colmi di merci che accompagnano la rinascita di un’embrione di attività commerciale. Intorno a Herat ci sono ancora enormi distese verdi, paesaggi quasi irlandesi, partorite dai temporali di inizio maggio. Ma la sabbia le sta inghiottendo velocemente: la temperatura comincia a salire (a Farah il termometro supera già i 45 gradi), rallentando i motori degli elicotteri. La natura è il principale alleato dei talebani, con una forza sorprendente. Dall’asfalto delle nuove piste di Herat, completate due mesi fa, sono spuntati dei cardi giganteschi: le piante hanno aperto decine di buche che mettono a rischio il decollo dei caccia. I Tornado di rinforzo invocati dalla Nato, con tutta la loro tecnologia dovranno aspettare settembre, respinti dalla caparbietà dei cardi selvatici. Una lezione che in Afghanistan tutti gli eserciti hanno dovuto imparare a loro spese.