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 2009  giugno 04 Giovedì calendario

RICCARDO BOCCA PER L’ESPRESSO 4 GIUGNO 2009

Quando la bestia si chiama uomo Violenze. Abbandoni. Incuria. Commerci illegali. In Italia si moltiplicano i casi di maltrattamento degli animali. Spesso nella indifferenza delle istituzioni

Non ci sono parole. C’è il delirio di 120 cani che abbaiano disperatamente. C’è la distesa di feci e urine attorno a queste bestie. C’è il tanfo dell’acqua putrida dentro abbeveratoi che grondano muffa. C’è la pena per il lupo e i bastardini che saltellano allucinati, roteando su se stessi con lo sguardo fisso. Questo si trova nel canile privato D.a.c. di Crispiano, 13 mila abitanti alle porte di Taranto.
Un quadro che gli attivisti Lav (Lega anti vivisezione) denunciano dal 2006: «L’unica alienante prospettiva visuale, per gli animali, è l’opprimente muro perimetrale», hanno scritto alla Procura. Hanno segnalato anche «la totale e ininterrotta costrizione in cattività, in spazi estremamente squallidi e angusti». Eppure non è servito. I magistrati non hanno ritenuto di procedere, e per la Asl locale il caso non esiste. Così si è andati avanti.
Con un dettaglio incredibile: il trasferimento in furgone, per 800 infiniti chilometri, di molte bestie imprigionate a Crispiano dentro un canile in provincia di Reggio Emilia, dove il titolare Claudio Balugani conferma il meccanismo. Anche se un documento della Regione Puglia, firmato dall?assessore alle Politiche della salute, specifica che «gli animali non possono essere ospitati in rifugi fuori dalla Regione». Anche se è una storia triste, e dolorosa per i cani che la devono subire. «La parola tabù è maltrattamento», commenta Maria Rosaria Esposito, fondatrice del Nirda (Nucleo investigativo forestale per i reati in danno agli animali): «Gli italiani si dichiarano grandi amici delle bestie, ma troppo spesso le trascurano. Le umiliano. Le trattano come oggetti e non esitano a sfruttarle: negli allevamenti, nei canili e anche in zoo e circhi che violano le regole (box a pag. 72)».
Dal 2006 a oggi, non a caso, le indagini della Forestale hanno portato alla denuncia di 137 persone e a 5.849 sequestri tra cani (3.635), gatti (760) e altri animali. Interventi realizzati grazie alla legge del 2004, sottolinea Esposito, che punisce con severe multe e il carcere (dai 3 ai 18 mesi) «chiunque sevizi o provochi, per crudeltà o senza necessità, la morte di un animale». Un buon deterrente, sulla carta. E altrettanto suggestivo, a livello internazionale, è il Trattato di Lisbona del dicembre 2007, in cui si dice che «l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali». Poi però c’è la quotidianità, fatta di canili come quello di Crispiano. O quello di Campobasso, dove i consulenti della Procura hanno trovato in un sopralluogo «pessime condizioni igienico-sanitarie, giacigli sporchi, acqua insufficiente » e bestie «con lesioni cutanee». Per non parlare del randagismo e dei maltrattamenti legati alle sue cause occulte.
«Perché la gente, a ragione, resta turbata quando i branchi di cani attaccano l’uomo», spiega l’ausiliario di polizia giudiziaria Bruno Mei Tomasi, presidente dell’Anta (Associazione nazionale tutela animali): «Ma l’abbandono di queste bestie non è casuale: alle spalle c’è un business da un miliardo e mezzo di euro». Un affare, testimonia Mei Tomasi, gestito silenziosamente da canili privati del Centrosud: «Lager indecenti che catturano gli animali (ottenendo dai Comuni tra i 2 ai 5 euro al giorno per il mantenimento), li fanno riprodurre in condizioni pietose, e liberano i nuovi nati per poterli riacciuffare».
Tutto senza problemi, da anni. In un clima generale che non si scompone per gli abusi sugli animali. Anzi: li tollera e sottovaluta, dicono le associazioni ambientaliste, «soprattutto nelle aree agricole dove le bestie sono strumenti di lavoro e profitto, e più in generale in provincia». Il 7 maggio, per esempio, sono stati uccisi a bastonate vicino a Perugia (Umbertide) quattro gattini con la madre, scaraventati nel giardino della signora che li accudiva. Tre giorni prima a Villa del Bosco, Biella, un uomo di 47 anni ha decapitato a colpi d’ascia un barboncino perché «creava ansia» alla fidanzata. Ma non è finita. Il 27 marzo, in provincia di Pordenone, una coppia di ventiduenni ha cercato di accoppiare un meticcio a un dobermann. E quando la bestia si è rifiutata, i ragazzi l’hanno massacrata con una stanga di ferro, attaccando la carcassa a un montacarichi e filmando la scena con il cellulare.
«Il tragitto è lungo, perché gli italiani imparino a rispettare gli animali», ammette il sottosegretario alla Salute Francesca Martini (Lega). Più in generale, «è la società occidentale a essere anti-animalista », sostiene Valerio Pocar, docente di Sociologia del diritto all’università di Milano- Bicocca (nonché autore per Laterza del saggio ?Gli animali non umani?): «Si infierisce sulle bestie in quanto esseri inferiori», dice, «ed è uno schema riproposto nelle relazioni umane». Il risultato è che un pastore lodigiano, transitando con il gregge per la sua città, ha trovato naturale scaricare un agnello vivo nel cassonetto, perché non riusciva a tenere il passo. E con la stessa disinvoltura, un signore della provincia barese ha imprigionato il suo daino in un recinto di 30 metri quadri, ai bordi della provinciale, lasciandolo senza riparo dalla pioggia e il sole fino allo stremo (condanna a 5 mila euro di multa).
«Anche se attenzione», avvertono i forestali, «un conto sono le barbarie dei singoli cittadini, per quanto gravi, gravissime, un altro gli abusi reiterati dei commercianti». A cosa alludano, gli investigatori si capisce parlando con Alessandro, 36 anni, diploma di liceo scientifico, professione importatore clandestino di animali di razza. La sua attività, racconta senza imbarazzi, consiste nel trasferire cuccioli di cani, uccelli e quant’altro dai paesi dell’Est («Romania, soprattutto, ma anche Slovenia e Polonia») stipandoli dentro il doppio fondo del suo furgoncino, e vendendoli a negozianti e privati. «Un sistema rodato e molto diffuso», sorride. Certo, ammette, «un buon 20 per cento delle bestie non sopporta il viaggio, le trovo morte all’arrivo». E un’altra buona percentuale, aggiungono gli animalisti, muore nel periodo successivo, infestata da parassiti intestinali, cimurro e patologie ereditarie.
«Perché così vuole il mercato», denuncia Massimiliano Rocco, responsabile per il Wwf della lotta al traffico degli animali: «Troppe famiglie cercano esemplari di razza ma vogliono spendere poco. E se alla fine il cucciolo non è di razza e i proprietari se ne accorgono tardi, finisce che se ne sbarazzano». Per questo, per stroncare i mercati illeciti, il magistrato di Cassazione Maurizio Santoloci (responsabile dell’ufficio legale Lav) e altri specialisti dedicano corsi di formazione a tutte le forze di polizia, aiutandole a intervenire con velocità e competenza. «Anche se è una guerra impari», fa notare Mei Tomasi. Uno sforzo che s’incunea tra i due estremi italiani: «Da un lato i 500 milioni spesi nel 2008 per la toelettatura, le pensioni e l’addestramento degli animali d?affezione. Dall’altro il cinismo sfrenato di certi allevatori».
Recentissima, per citare un caso clamoroso, è la condanna a sei mesi di un allevatore di Godega di Sant’Urbano (Treviso), al quale i Nas hanno trovato 7 mila conigli abbandonati senza cibo, in parte morti ma lasciati in gabbia con quelli vivi. Altrettanto orribile è il fenomeno delle cosiddette "mucche a terra", che al macello Calzi di Bertodico (Lodi) è costato il patteggiamento a quattro mesi del titolare. Sotto accusa, in particolare, è il trattamento riservato alle vacche "da riforma": bestie massacrate dai cicli intensivi di produzione, non più in grado di alzarsi o camminare. «Per spostarle», documenta un’inchiesta svolta per otto mesi in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna dell’organizzazione internazionale Animal’s Angels, «le colpiscono con pungoli elettrici, le trascinano con corde e catene, le alzano con verricelli e le caricano a forza sui camion».
Il tutto in barba al regolamento europeo, secondo cui «gli animali che presentino lesioni, problemi fisiologici o patologie, non vanno considerati idonei al trasporto». Premesse sconfortanti, oltre che fuorilegge. Ancora di più se confrontate con le riflessioni di Francesca Rescigno, docente di Istituzioni di diritto all’università di Bologna: «Neppure l’antropocentrismo giuridico più estremo», ha riferito a Montecitorio lo scorso ottobre, «può rimanere impassibile rispetto alle elaborazioni scientifico-dottrinali, che dimostrano come gli animali siano esseri senzienti ». Ormai, ha proseguito, è certo che le bestie sono «in grado di provare piacere e dolore, di avere desideri e aspettative». E appunto per questo «meritano di evolvere dalla condizione di cose a quella di soggetti». Resta il fatto, che chi fa business con gli animali applica parametri più spicci.
E la riprova, secondo gli investigatori, arriva da vicende come quella di Zoo Grunwald, società che «da trent’anni fornisce animali al cinema». Tra i registi nel suo curriculum, ci sono mostri sacri tipo Martin Scorsese e Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Bernardo Bertolucci. Eppure gli uomini del Nirda, perquisendo la sede romana, sono rimasti perplessi: «Tutta la struttura», spiega la relazione di servizio, era «in condizioni igienico-sanitarie e strutturali assolutamente inadatte a detenere animali». Le bestie, nel complesso, risultavano «sottoposte a notevole stress psicofisico ». I lupi si trovavano «in grave stato di denutrizione»; i serpenti giacevano in un locale senza «finestre, completamente imbrattato di feci dall’odore acre e nauseabondo »; i bovini venivano nutriti «con verdure marcescenti a contatto con il letame». E persino i pappagalli, erano «detenuti in condizioni pessime».
Il 15 luglio ci sarà la prima udienza del processo. Ma a prescindere dalla Zoo Grunwald, e dai sospetti che la riguardano, resta un disagio di fondo. la sensazione che «il maltrattamento animale non sia soltanto una questione di regolamenti violati, ma anche un sintomo di imbarbarimento sociale», per usare le parole del giudice Santoloci. Non basta, insomma, la «vigilanza assoluta» assicurata dal sottosegretario Martini. E nemmeno il tavolo sul benessere animale, avviato meritoriamente «con le associazioni ambientaliste piccole e grandi, i veterinari, le Regioni e i dirigenti del ministero». Bisogna visitare una mattina qualunque (quella del 7 maggio scorso) lo zoo di Napoli, per rendersene conto. All’ingresso, infatti, campeggia la scritta «Abbiamo gettato le fondamenta per la rinascita dello zoo».
E anche sulle vecchie gabbie, chiuse per palese inadeguatezza, risaltano cartelli arancioni (in parte arrugginiti) dove si torna ad annunciare il «nuovo zoo», in cui «gli animali verranno esposti in spazi più ampi, che riprodurranno i loro ambienti naturali». Nel frattempo, però, lo spettacolo è quello riassunto da una nonna al nipotino: «Che tristezza...», dice scuotendo la testa. Ed è difficile darle torto. Davanti agli occhi, ha la fossa di cemento con spezzoni di legno dove un orso bruno, spelacchiato, ripete ciclicamente lo stesso percorso: un cerchio che non s’allarga e non si stringe. Identico e ossessivo.
La stessa sorte, d’altronde, toccata alle due tigri poco lontane, costrette in una gabbia ammuffita senza gli arricchimenti naturali previsti dalle norme Cites (Convention on international trade in endangered species of wild fauna and flora). Solo una pozzanghera d’acqua, spetta a questi felini, che la sfiorano camminando avanti e indietro, indietro e avanti. Alla fine, dopo avere visto e filmato anche l’elefante sotto al sole, in uno spazio privo di cespugli e alberi, fisso davanti al cancello del suo ricovero (chiuso, sostengono gli animalisti, per assicurare la visione al pubblico), lo sconforto è totale. E il disagio contagia, parlandone, anche il sottosegretario Martini: «In tempi stretti», promette, «invierò un?ispezione per verificare questa o altre situazioni ». Un intervento che molti, umani e animali, attendono fiduciosi.