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 2009  giugno 04 Giovedì calendario

MA JIAN PER L’ESPRESSO 4 GIUGNO 2009

Tienanmen, venti anni dopo La brutale repressione del 4 giugno 1989. La volontà del potere di far dimenticare i morti. Ma anche il desiderio dei testimoni di perpetuare la memoria. Il reportage tra passato e presente di un grande scrittore

Duemila anni fa, meditando sull’ininterrotto fluire del tempo, Confucio rivolse lo sguardo a un fiume, sospirò e disse: "Ciò che passa è così, non si ferma mai, giorno e notte...". In Cina il tempo può sembrare simultaneamente immobile e inarrestabile. Il Massacro di Tienanmen, che venti anni fa sconvolse Pechino, provocò la morte di migliaia di cittadini inermi, cambiò per sempre la vita di milioni di cinesi, pare oggi relegato nel Ventesimo secolo, dimenticato o ignorato, mentre la Cina prosegue la sua cieca corsa verso il futuro.
L’amnesia alla quale la Cina ha finito col soccombere non è dovuta a una naturale perdita di memoria, ma a un’opera di rimozione forzata voluta dallo Stato. Il Regime Comunista cinese non tollera neppure che si parli del massacro, ma la Piazza Tienanmen e altri luoghi collegati agli eventi del 1989 sono saturi di ricordi. Quando si censurano le parole, scritte o pronunciate che siano, il paesaggio urbano assume una risonanza maggiore e diventa l’unico legame concreto di una nazione col proprio passato.
Lasciai Pechino nel 1987, poco prima che i miei libri fossero messi all’indice. Ho continuato però a farvi ritorno a intervalli più o meno regolari e nel 1989 mi trovai in Piazza Tienanmen insieme agli studenti, vissi nelle loro tendopoli improvvisate, mi unii anch’io al loro coro entusiasta dell’Internazionale. Nei venti anni passati, ogni volta che ho fatto ritorno a Pechino, ho rievocato i ricordi di quei giorni con sempre maggiore intensità. Nell’agosto scorso, durante le Olimpiadi di Pechino, ho accompagnato in Piazza Tienanmen mio figlio, che adesso ha cinque anni. Lungo tutto il tragitto i nostri movimenti sono stati costantemente monitorati dalle telecamere della CCTV già nell’ascensore del nostro condominio e fuori dalla cancellata del nostro quartiere, dai dispositivi di intercettazione a bordo del nostro taxi, dalla polizia armata che pattuglia ogni strada e dalle guardie di sicurezza che ci hanno perquisito prima di autorizzarci ad accedere alla piazza. Siamo usciti dal sottopassaggio e abbiamo finalmente messo piede a Tienanmen. A eccezione di un folto plotone di poliziotti, di agenti in borghese (per altro immediatamente riconoscibili dagli occhiali scuri e dalle camicie Aertex a righine) e di composizioni floreali di cattivo gusto, la vasta piazza quadrata di cemento, grande come nove campi da calcio, era pressoché deserta.
Nella primavera del 1989, la Piazza era stata invasa dagli studenti e dagli abitanti di Pechino che vi inscenarono la più grande protesta pacifica della storia: chiedevano dialogo, esercitavano pressioni per poter trattare con la leadership comunista, e ambivano in definitiva alla libertà e alla democrazia. La Piazza, gremita all’inverosimile, in quei giorni divenne il cuore pulsante dell’intera città. La polizia pareva scomparsa. Fu una manifestazione pacifica di anarchia nobile, entusiasta e sorprendentemente ordinata.
Mio figlio si è avviato di corsa in direzione del punto esatto dove venti anni prima gli studenti avevano eretto una gigantesca riproduzione in polistirolo della Statua della Libertà. Si è girato e ha guardato verso nord, verso le mura di Tienanmen, l’ingresso alla Città Proibita, dove un tempo vissero gli imperatori cinesi. Nel 1949 proprio da quelle mura Mao proclamò la fondazione della Repubblica Popolare. L’anno scorso le pareti rosso sangue della mura erano ricoperte da ponteggi, impalcature e reti verdi. In coincidenza di periodi delicati per la politica, quelle mura sono invariabilmente ricoperte per "urgenti lavori di riparazione", così che la folla non possa avvicinarsi abbastanza da potervi scarabocchiare slogan sovversivi. L’unica porzione di mura che i turisti sono stati in grado di fotografare l’anno scorso era quella con il ritratto del Presidente Mao che sovrasta l’arco centrale.
Mio figlio ha fissato con attenzione la faccia rosea e paffuta del despota, e mi ha chiesto chi fosse. "Mao Zedong" ho risposto. "Ed è morto?" ha domandato ancora, col sudore che gli imperlava le guance. " morto parecchi anni fa. Il suo corpo riposa in quell’edificio là" gli ho spiegato, indicando il mausoleo grigio di cemento alle nostre spalle. Mio figlio si è girato ed è partito di corsa in direzione di un carretto di gelati. Ciò mi ha riportato alla memoria ancora una volta il 1989, quando dovetti attraversare di corsa l’intera Piazza - nella medesima intollerabile calura - con un sacchetto nello zaino pieno di ghiaccioli per i miei amici scrittori che avevano marciato fino alla Piazza dall’Accademia di Scrittura Lu Xun per reclamare la libertà di parola e chiedere che venisse posta fine alla corruzione del governo. Mentre sfilavano, con le dita a "V" avevo fatto in loro direzione il segno della vittoria. Quel giorno in Piazza era sceso oltre un milione di persone. Il cielo era azzurro come in quel momento, ma invece del profumo di fiori e di erba verde, l’aria era impregnata dell’acre olezzo di sudore di tutta quella gente, dei rifiuti in decomposizione, delle esuberanti urla di protesta.
Mentre mio figlio curiosava nel banchetto dei gelati, ho guardato in alto verso il ponte sul canale Jinshui che costeggia le mura di Tienanmen: era gremito di poliziotti, di guardia in quel punto per evitare che qualche manifestante antigovernativo si suicidi buttandosi giù. Cinque anni fa un pechinese di nome Ye Guoqiang ha tentato di suicidarsi proprio lì, in segno di protesta perché la sua casa gli era stata espropriata a forza per far posto a un cantiere dei Giochi Olimpici. stato condannato a due anni di carcere per aver messo lo Stato in una situazione imbarazzante. Nel leggere la sentenza il giudice ha sottolineato: "Se proprio vuole farla finita, lo faccia nella privacy della sua abitazione e non sotto il naso del Presidente". I cittadini, insomma, possono farsi ammazzare a colpi di arma da fuoco sotto il ritratto di Mao, ma non possono suicidarsi lì.
Dirimpetto al Museo di storia cinese sul lato orientale della Piazza ho scattato una fotografia a mio figlio, in piedi davanti a una composizione floreale in vaso alquanto vistosa, bordeaux, gialla e arancione. Lo slogan sovrastante scandiva: "Un unico mondo, un unico sogno". All’inizio del maggio 1989, durante lo sciopero della fame in massa degli studenti, avevo avvisato la mia amica che se l’esercito avesse fatto irruzione nella Piazza puntandoci addosso le armi, l’avrei presa e trascinata di corsa nel Museo. Lei era scoppiata a ridere e aveva risposto: "Pensi davvero che ci spareranno addosso? Sei matto?". Indossava un cappello di paglia - rammento - e sulla falda anteriore comparivano le parole: "Tristezza! Gioia!". Al pari di quasi chiunque altro, anche lei non riusciva a credere che l’Esercito Popolare potesse sparare su civili inermi.
Il 28 maggio 1989 mio fratello ebbe un incidente nella nostra città natale di Qingdao e cadde in coma. Io lasciai immediatamente Pechino per andare ad assisterlo e di conseguenza non fui presente al massacro del 4 giugno. (Forse, se lo fossi stato, non sarei in grado di parlarne). La mia amica Li Lanju, a capo di un’associazione studentesca di Hong Kong mi ha raccontato che all’alba del4 giugno anche lei era seduta proprio davanti al Museo. Vide soldati dell’Esercito popolare di liberazione uscire in massa dal Museo con gli elmetti in testa e allinearsi sui gradini lì davanti. Un ragazzetto di una quindicina d’anni corse verso di loro con una pietra in mano, gridando: "Avete appena ucciso mio fratello! Io vendicherò la sua morte!". Li Lanju si precipitò dietro di lui, riuscì a fermarlo e a riportarlo indietro. Ma dopo poco, un uomo corse via trasportandolo tra le braccia: il ragazzino era morto e il suo volto era completamente ricoperto di sangue. Il Museo di storia cinese non conserva testimonianza alcuna di questi eventi, svoltisi sui gradini del suo stesso ingresso.
Ho raggiunto mio figlio e gli ho comperato un gelato a forma di panda su uno stecco. (Tornati a Londra, un mese dopo, sua madre e io saremmo rimasti atterriti venendo a sapere che tutti i prodotti a base di latte con i quali avevamo nutrito nostro figlio e la sua sorellina di tre anni erano contaminati da melanina, che provoca calcoli renali. Il governo cinese sapeva che allevatori senza scrupolo adulteravano il latte per aumentare i loro margini di guadagno, ma aveva censurato ogni notizia in merito per evitare di scalfire la smagliante propaganda per le Olimpiadi).
Più a sud, mio figlio ha voluto scattarmi una foto in posa davanti a un altro slogan: "Partecipo, contribuisco, gioisco". Lo Stato ormai controlla non soltanto gli spazi pubblici di Pechino, ma anche la lingua. Gli slogan sbandierati in tutta la città alterano il contenuto di parole un tempo significative. Nel 1989 sapevamo che cosa volesse dire "partecipazione"; vivevamo con gioia il contributo alla storia del nostro Paese e condividevamo con tutto il mondo l’anelito alla libertà. Il successo di Solidarnosc in Polonia, i cortei di studenti che marciavano per noi a Taiwan, Washington e Parigi ci infondevano la sensazione che il mondo fosse davvero unito da un unico sogno comune. Da allora, i Comunisti hanno fatto tutto quello che era loro possibile fare affinché i cinesi criticassero le democrazie straniere, e hanno continuato a escludere i cittadini da qualsiasi questione di pertinenza dello Stato. Quando le parole "partecipazione", "sogno", "gioia" sono pronunciate dai despoti diventano brutte parole prive di significato.
Continuando a camminare abbiamo superato il mausoleo di Mao e i miei pensieri ancora una volta sono tornati al 1989, quando uno studente nella mia tenda mi aveva rivelato di provare l’impulso irrefrenabile di riunire un gruppetto di amici, fare irruzione nel mausoleo, trascinarne fuori il corpo di Mao e gettarlo nel canale Jinshui. Era infatti dell’opinione che finché il corpo imbalsamato di Mao fosse rimasto nella Piazza, la Cina non avrebbe mai avuto pace.
Stanco e turbato ho preso mio figlio per mano e l’ho accompagnato al di là della strada nel distretto di Qianmen. Nel 1989 avevo fatto spesso delle capatine nelle sue strade affollate e frenetiche alla ricerca di una ciotola di noodle. In quei giorni i commercianti distribuivano bibite gratis e panini ai manifestanti affamati. Ho sentito anche dire che quando il 4 giugno gli studenti furono allontanati a forza dalla Piazza, gli ambulanti andarono in giro con cesti pieni di scarpe da ginnastica da offrire a quelli di loro che le avevano perdute nella calca. L’anno scorso, insieme a mio figlio, il posto mi è parso pressoché irriconoscibile. Nel periodo di preparazione ai Giochi Olimpici gli edifici risalenti alla Dinastia Ming lungo la strada principale, con le loro splendide decorazioni di pietra scolpita e i tetti di legno, sono stati spianati e sostituiti da insipide repliche moderne di quello che c’era in precedenza. Sono rimasto a osservare quell’assortimento kitsch che ci circondava, mentre i residenti si aggiravano meravigliati, riprendendo tutto con le cineprese, ridotti al ruolo di turisti nelle loro stesse stradine secondarie.
Dopo un po’, il senso di alienazione dal passato diventa opprimente ed è difficile riprendere i contatti con i propri amici. Appena arrivato a Pechino, qualche settimana prima delle Olimpiadi, la polizia segreta mi ha convocato allo Sheraton Hotel, e mentre bevevamo caffè e mangiavamo una fetta di torta mi ha comunicato, con grande gentilezza, di non parlare in pubblico, di non incontrarmi con alcun giornalista straniero e soprattutto di stare alla larga da individui politicamente coinvolti come Liu Xiaobo e Zhou Duo, due dei quattro intellettuali che negli ultimi giorni del movimento democratico studentesco avevano iniziato uno sciopero della fame in segno di solidarietà. Zhou Duo, ex professore di economia all’Università di Pechino, è un mio caro e vecchio amico. un uomo pacato, molto colto, con un debole per la filosofia e la musica classica. Nel 1989 fu coinvolto dal movimento democratico dopo che il più estroso e carismatico saggista Liu Xiaobo aveva dichiarato che egli era uno dei più importanti intellettuali della nostra generazione. Zhou Duo in precedenza non si era mai interessato molto alla politica, e rimasi sorpreso venendo a sapere che aveva aderito allo sciopero della fame. Il3 giugno, sul tardi, Zhou Duo andò con una rockstar di Taiwan di nome Hou Dejian a negoziare con l’esercito. Mentre gli studenti si accalcavano terrorizzati sotto il monumento agli Eroi del Popolo, egli supplicò l’esercito di permettere che i giovani abbandonassero la Piazza sani e salvi. I suoi modi calmi e diplomatici senza dubbio hanno salvato migliaia di vite.
Diversamente da Liu Xiaobo, che adesso è in prigione per la terza volta per aver firmato una petizione l’anno scorso con la quale si chiedeva una riforma politica, Zhou Duo è scomparso dalla vita pubblica. Non è stato più in grado di lavorare né di pubblicare nulla dal 1989 e vive costantemente sotto l’occhio vigile della polizia. Rimpiange di essersi impegnato nelle manifestazioni e di essersi rovinato la carriera. Avendo trovato Dio, riesce a organizzare piccole funzioni alla periferia di Pechino, nel suo appartamento tenuto sotto controllo, e trascorre la maggior parte del proprio tempo a tratteggiare modelli di sviluppo per il futuro politico della Cina, ma pochi li leggeranno mai. Prima delle Olimpiadi siamo riusciti a scambiarci qualche parola sul suo telefono intercettato dalla polizia, ma non ho osato proporgli di incontrarci di persona.
Nel febbraio di quest’anno sono tornato in Cina per svolgere ricerche per il mio prossimo libro. Le autorità cinesi conoscono i miei romanzi pubblicati in Occidente, compreso l’ultimo, Beijing Coma, che parla di uno studente ucciso in Piazza Tienanmen, e finora mi hanno ugualmente concesso di tornare nel mio Paese. Alla dogana mi perquisiscono sempre, confiscano i miei documenti e controllano ogni mio movimento, ma senz’altro hanno capito che fintantoché mi negheranno la possibilità di parlare in Cina, non posso fare grandi danni. Quantunque il mio prossimo libro non abbia nulla a che vedere con Tienanmen, pochi giorni dopo il mio arrivo nel febbraio scorso mi sono involontariamente trovato ancora una volta attirato da quell’enorme spazio aperto. Ci sono arrivato in taxi. La Piazza era completamente deserta, ricoperta da un manto di neve. Le conifere verde smeraldo lungo tutto il suo perimetro sembravano indicare il cielo. Ho abbassato il finestrino per scattare una fotografia, ma ancora prima che potessi premere l’otturatore il tassista mi ha intimato urlando: "Chiuda subito quel finestrino! C’è una nuova legge, non lo sa? Tutti i finestrini dei taxi devono essere chiusi quando si attraversa Piazza Tienanmen. Adesso questa è definita una "zona politicamente sensibile"".
Il 2009 è un anno di ricorrenze importanti in Cina, tra le quali il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare e il ventesimo del Massacro di Tienanmen. Il governo è più all’erta che mai. Ho tirato su il finestrino, osservando la piazza, rammentando una moltitudine di braccia alzate, di bandiere, di cartelloni. Le urla di un milione di manifestanti messi a tacere sono riecheggiate nella mia mente, dicendomi più cose di quante i miei occhi potessero vedere.
Mi sono occorsi dieci anni per terminare Beijing Coma. Nei primi ho scritto molto poco. Un’immagine ricorrente mi paralizzava, impedendomi di proseguire: un uomo nudo, su un letto di ferro, un passerotto appollaiato sul suo braccio, il petto illuminato da un raggio di luce fredda. Questi dieci anni sono stati per me dieci anni di battaglie, per chiarire a me stesso il potere e il significato di quell’unico raggio di luce.
"Come è possibile che gli uomini siano così bravi a trasformare il loro paradiso in un inferno?" ho borbottato tra me e me, con gli occhi chiusi. Il tassista ha guardato fuori dal finestrino e ha detto: "La neve che vede adesso è nulla... Avrebbe dovuto vedere quanta ne è caduta nel nostro villaggio! "Senta, ho cambiato idea, non voglio più andare nella Piazza. Per favore, torni indietro e mi riporti a Tongxian" gli ho detto.
All’improvviso provavo il forte desiderio di far visita all’artista e fotografo Chen Guang. Le foto che ha scattato molti anni fa, di se stesso circondato da donne nude o mentre fa sesso con una prostituta, erano crude espressioni di una prorompente rabbia interiore. In tempi recenti ha portato a termine invece una serie di dipinti a olio del Massacro di Tienanmen e li ha messi su Internet. Io volevo vederli con i miei occhi.
L’appartamento di Chen Guang a Tongxian è in un anonimo condominio moderno. Al centro di una stanza spoglia c’era un secchio di plastica pieno zeppo di mozziconi di sigaretta. Alle pareti erano appese tele con verdi tank vorticosi, soldati con l’elmetto e tende rase al suolo.
Mi ha offerto un bicchiere d’acqua e mi ha confessato che nel 1989 si era arruolato nell’esercito. Aveva soltanto 17 anni. Nel giro di pochi mesi dacché era entrato nell’esercito, il suo reggimento, il 62°, è stato mandato a Pechino per reprimere il movimento studentesco. Il 3 giugno con i suoi commilitoni aveva ricevuto l’ordine di mettersi in abiti civili, di intrufolarsi tra la folla e di raggiungere in modo indipendente la Grande Sala del Popolo sul lato occidentale della Piazza, per attendere il segnale convenuto e dare inizio all’allontanamento degli studenti.
"Eravamo in settemila" mi ha raccontato, accendendosi un’ennesima sigaretta con il mozzicone della precedente ancora accesa, "e mi è stato impartito l’ordine di trasportare quattromila fucili d’assalto nella Grande Sala. Mi sono vestito come uno studente qualsiasi, ho caricato le armi su un autobus di linea confiscato dall’esercito e ricordo che, mentre l’autista si dirigeva attraverso la fitta massa di studenti in Viale Changan, ho temuto che qualche ragazzo potesse saltare a bordo e accorgersi delle armi sistemate per terra. Così mi sporsi dal finestrino e iniziai a fare con le mani il segno di vittoria. Quando abbiamo raggiunto il retro della Grande Sala e ci siamo chiusi i cancelli alle spalle, ho trascorso più di due ore a scaricare le armi, una dopo l’altra. Erano tutte nuove fiammanti. Alla fine ero intriso di olio da capo a piedi".
Non mi era mai capitato di sentire il racconto della repressione da un soldato, in prima persona. Ha dato un tiro alla sigaretta e ha continuato a raccontare, con gli occhi che iniziavano a farsi rossi: "Ogni soldato ha ricevuto un fucile carico nuovo fiammante e l’ordine di disporsi in colonna. Per la maggior parte eravamo tutti ragazzini di paese appena entrati nell’esercito. Erano giorni che non mangiavamo. Ci sentivamo deboli, avevamo molta paura, ed eravamo convinti che saremmo morti. Alcuni si sono suicidati, altri tremavano al punto che inavvertitamente aprivano il fuoco sui loro commilitoni. A mezzogiorno del 4 giugno le porte della Grande Sala si spalancarono. Fuori c’era il finimondo. Le forze speciali in tuta mimetica brandivano le baionette e rincorrevano gli studenti rimasti nella Piazza. Accanto, un gruppetto prendeva a calci uno studente caduto a terra e lo colpiva al cranio con il calcio dei fucili. In lontananza udii il suono di una mitragliatrice e vidi la Dea della Democrazia investita e schiacciata da un carro armato... Imbracciai il fucile ma non avevo idea di dove puntarlo. Mi ordinarono di dare una mano a ripulire la Piazza e a distruggere le prove. Attraversai a piedi quella distesa caotica di tende cadute a terra, lenzuola, sandali, depliant, raccolsi due giornali e una lunga treccia di capelli neri legata all’estremità con un elastico. Immaginai che qualche ragazza se la fosse tagliata in preda alla disperazione, una volta arrivato l’esercito... ".
Gli ho domandato qual è il ricordo che gli è rimasto maggiormente impresso nella memoria e mi ha risposto: "Dopo aver sigillato il centro di Pechino abbiamo potuto avventurarci ovunque, in luoghi nei quali di norma non possiamo entrare. Ricordo di aver vagato nel complesso di Zhongnanhai. Tutti i leader del governo avevano abbandonato precipitosamente da qualche giorno le loro ville. I loro animali domestici, cani e gatti, vagavano digiuni e affamati, chiusi fuori di casa. Ricordo cose così, e altri dettagli del genere. Ma se chiudo gli occhi e ripenso a quei giorni, vedo solo una cosa: il colore verde, un verde vorticoso, da incubo, di elmetti e carri armati".
Gli ho raccontato che quantunque durante la repressione non fossi a Pechino, anche a me, ogni volta che cerco di descrivere quei giorni nei miei libri, viene in mente questo spaventoso color verde, un mare di uniformi impietose che uccidono e mutilano. Sono arrivato a immaginare che all’alba del 4 giugno anche il Sole nascente si sia colorato di verde.
Gli ho chiesto perché si fosse deciso a parlarne proprio quel giorno. " il ventesimo anniversario quest’anno. Credo che sia venuto il momento... In ogni caso non posso tenermi dentro ancora a lungo questo incubo". Chen Guang è uno dei pochissimi artisti che ha osato sfidare Piazza Tienanmen a testa bassa. Il giorno seguente alla mia visita, il suo sito su Internet è stato oscurato dalla censura: era rimasto online appena tre giorni.
I cinesi hanno stretto un patto faustiano con il loro governo: hanno acconsentito a mettere nel dimenticatoio le loro richieste di libertà politica e intellettuale in cambio di maggiori comodità materiali. Vivono prosperamente, ma nelle loro vite non c’è spazio per nessuna manifestazione di dolore. Quando parlo ai giovani cinesi del 1989, invariabilmente mi accusano di diffondere false voci, di essere un traditore della mia patria. Quando ne parlo con i miei vecchi amici di un tempo, la maggior parte di loro ridacchia in modo sprezzante, come se quegli avvenimenti fossero ormai irrilevanti. Io so, però, che dietro la loro dimostrazione di scherno o di apatia c’è paura. Paura vera. Tutti sanno che qualsiasi tentativo di infrangere il tabù Tienanmen può rovinare la vita propria e quella dei propri famigliari ancora oggi. Le autorità dal canto loro avranno anche il monopolio delle risorse dell’intera nazione, ma non potranno mai avere il pieno controllo dell’anima di questa nazione, e ogni giorno vivono nel terrore che il complicato castello di menzogne che hanno edificato possa crollare da un momento all’altro.
La libreria Xidan, a cinque minuti a piedi lungo il Viale Changan dal complesso governativo di Zhongnanhai, è la più grande di tutta l’Asia. Pochi giorni dopo aver fatto visita a Chen Guang, mi ci sono recato per comperare la traduzione in cinese di Austerlitz, di W. G. Sebald. Come il protagonista di quel libro, anche io sono sempre in difficoltà per cercare di capire di quanti ricordi ha bisogno una vita umana. In quell’immenso edificio di cinque piani si vendono fino a centomila libri al giorno. Accanto al portone principale spiccava un grande poster con l’immagine sorridente del presidente Obama. In quella libreria si possono comperare versioni in cinese delle ultime novità nel settore scientifico o economico, libri che ripercorrono i cinquemila anni di storia della Cina, ma non si trova neppure una parola sul Massacro di Tienanmen, né un purché minimo resoconto accurato di altre tragedie che i Comunisti hanno inflitto ai cinesi dal 1949 a oggi. Questi capitoli mancanti della storia nazionale indeboliscono l’autorità di ogni altro testo cinese presente su quegli scaffali.
Il mio telefono cellulare ha squillato. Avevo fissato un appuntamento nella libreria con Liu Hua, un sopravvissuto di Tienanmen, figlio di un docente dell’Università di Pechino. Ho guardato fuori dalla vetrina e ho capito subito che l’uomo lì davanti non poteva che essere lui: era l’unico tra la folla ad avere un braccio solo.
Ci siamo avviati a piedi fianco a fianco lungo Viale Changan. Soffiava un vento gelido e la neve sul marciapiede era stata spalata verso alcuni alberi di agrifoglio. Le rosse mura antiche di Zhongnanhai brillavano nel Sole del tardo pomeriggio. Siamo arrivati all’incrocio di Liubukou. Alcuni anni prima mi ero fermato in quel punto a scattare alcune fotografie che mi servivano per le ricerche per Beijing Coma, e avevo cercato di mettere a confronto ciò che avevo sotto gli occhi con i resoconti che mi avevano fatto gli esuli cinesi del massacro che si era svolto proprio lì, nel 1989. In quel momento, con Liu Hua a farmi da guida, tutto sembrava quadrare. Hua era arrivato in quel punto all’alba del 4 giugno, in compagnia di due giovani studenti. " qui che è successo, proprio accanto a quelle inferriate bianche. Un carro armato stava percorrendo il Viale Changan sparando gas lacrimogeno. Eravamo un bel gruppo di studenti. Abbiamo iniziato a tossire e a sentirci soffocare. Ci siamo gettati a terra sul marciapiede, e io mi sono schiacciato contro quelle inferriate. Una ragazza è caduta in ginocchio davanti a me. Mi sono aggrappato all’inferriata con una mano per cercare di non cadere. Con l’altra le ho allungato un fazzoletto e le ho detto di usarlo a mo’ di maschera, per coprirsi naso e bocca. Proprio mentre mi chinavo verso di lei per darglielo, un altro tank è arrivato a tutta velocità e ci è venuto addosso. Tredici persone sono state schiacciate e ridotte in poltiglia. Io ho perso soltanto il braccio. Il comandante del carro armato era perfettamente consapevole di quello che stava facendo".
Liu Hua ha guardato fisso un punto dell’asfalto ai suoi piedi. Poi ha alzato lo sguardo nervosamente verso le camionette della polizia parcheggiate dirimpetto. Era l’ora di punta, automobili e taxi guizzavano da tutte le parti. "Che esperienza terrificante deve essere stata" gli ho sussurrato, toccando le inferriate bianche. "Sì, è stata proprio terrificante" mi ha risposto tranquillamente. Poi ha aggiunto: "Tuttavia, mi sono spaventato davvero soltanto quando Deng Xiaoping ha parlato alla televisione rivolgendosi ai soldati che avevano imposto la legge marziale e ha detto: "Gli stranieri sostengono che abbiamo aperto il fuoco, e questo lo ammetto. Ma sostenere che i carri armati abbiano caricato cittadini inermi è proprio una deplorevole menzogna". Mi è parso che la testa mi scoppiasse: io ero una prova vivente che quella era la verità. E se un giorno fossero venuti a cercarmi? Per due anni non ho osato uscire di sera, e non ho mai parlato con nessuno di quello che mi era successo. Tutti i giorni i poliziotti venivano a interrogarmi, ma nessuno di noi ha mai pronunciato la parola "carro armato". Ogni 4 di giugno, arrivano a casa mia agenti di polizia con materassi e lenzuola: si sistemano per terra a dormire nella mia camera, solo ed esclusivamente per impedirmi di parlare con qualche giornalista straniero".
Mentre il Sole tramontava, siamo entrati in un ristorante. Ho guardato in direzione di Zhongnanhai e ho pensato ai leader di governo che all’interno di quelle mura sempre più scure dovevano essere seduti a cena con le loro famiglie, nelle loro ville sontuose, con cani e gatti ben nutriti tra i piedi.
Liu Hua si è girato verso di me e si è sfogato: "Quei Comunisti assetati di sangue! Che diritto avevano di privarmi di un braccio? Se non porgeranno le loro scuse per la repressione e non si offriranno di risarcire le vittime, li porterò in tribunale!".
"Accertati di mettere al sicuro tutte le tue prove e le tue cartelle cliniche. Il giorno del giudizio dovrà pur arrivare" gli ho detto. Mi sorprende sempre quanta fede i cinesi ripongano nel sistema giudiziario: in un paese in cui non c’è legalità, la nostra unica arma nella lotta per la giustizia è la forza delle nostre convinzioni.
Senza questi testimoni, saremmo sempre più lontani e distaccati dalle atrocità commesse a Tienanmen. In soli venti anni la Generazione Tienanmen che ha ispirato popoli di tutto il mondo, facendoli ribellare contro i dispotismi, è pressoché scomparsa. Gli insegnanti nelle scuole, i genitori, i lettori dei notiziari e interi eserciti di censori hanno contribuito a mettere a tacere un’intera generazione. A togliere i morti dall’oblio e a lottare per la verità sono rimasti soltanto pochi sopravvissuti coraggiosi come Liu Hua, Chen Guang, e molti altri come Ding Zilin, fondatrice delle "Madri di Piazza Tienanmen", un gruppo di supporto.
Non tutti coloro che persero la vita quel 4 giugno lo fecero inconsapevolmente: alcuni scelsero di proposito di avanzare verso i fucili puntati loro addosso. E mentre le pallottole li raggiungevano, forse un pensiero deve avere attraversato le loro menti: "Questo è il momento più difficile. Dopo verrà la luce". Quegli individui privi della libertà scelsero di morire così che milioni di altri potessero tornare a vivere liberamente e a porre rimedio alle ingiustizie del passato. L’unico privilegio di chi si sacrifica per una causa consiste nel costringere l’oppressore a vivere con l’onere della colpa.
Ripenso a mio fratello, che esattamente venti anni fa cadde in coma. Sua moglie e i suoi figli lo hanno abbandonato da tempo. Oggi, tuttavia, è in grado di mangiare, bere e dormire, ma non ha emozioni o coscienza di sé. Non riesce a parlare, ma davanti a uno spettacolo della televisione è capace di ridere fino alle lacrime. Il più delle volte se ne sta a fissare il soffitto per ore. Non è padrone della propria vita. Come tutto il popolo cinese.
Eppure, l’ultima volta che gli ho fatto visita è successa una cosa davvero straordinaria. Spesso gli metto in mano una penna e osservo ciò che disegna: il più delle volte traccia scatole e croci, qualche volta scrive il mio nome o quello della sua prima ragazza. Ma l’ultima volta ha disegnato un cavallo che galoppa in un prato senza confini. Benché le linee fossero tracciate con mano tremolante, erano pur sempre più eloquenti di quelle che avrei potuto disegnare io. Per un istante, ho intravisto un debole raggio di luce illuminargli il petto e ho capito che c’è ancora speranza.