Francesco Sisci, La stampa 28/5/2009, 28 maggio 2009
LEE IL BULLDOZER CONTRO LA PARANOIA DI KIM-JONG-IL
In questa nuova grave crisi coreana, diversamente da quanto accaduto per una decina di anni, anche Seul sta giocando un ruolo importante e delicato, mentre si sono spenti gli entusiasmi pancoreani dei presidenti di sinistra Kim Dae-jong e Roh Moo-hyun. Non è casuale che la Corea del Sud ieri si sia unita all’iniziativa americana di controllare i vascelli del Nord per verificare carichi sospetti. In risposta, il regime ha minacciato di annullare le condizioni dell’armistizio alla fine della guerra del 1950-53.
Pyongyang ama il gioco estremo, andare fino al limite e ritirarsi un attimo prima di precipitare, ma questa minaccia settentrionale, appena un filo prima di una dichiarazione di guerra, è stata accolta senza eccessivo allarme al Sud, come se fosse considerata poco credibile. Del resto, Seul non vuole piegarsi a Pyongyang. L’attuale capo di Stato Lee Myung-bak, al potere dal febbraio 2008, vecchio reduce della guerra fredda contro il Nord comunista, ha marcato la sua presidenza con un atteggiamento decisamente più duro, pretendendo dai vicini settentrionali un maggior rispetto delle condizioni di pace stipulate nei negoziati a Sei.
Una posizione che ha rovesciato il comportamento dei suoi predecessori. Alla fine degli anni ”90 la Corea del Sud democratica aveva eletto presidente il suo più celebre dissidente, Kim Dae-jung, nato nel 1925, della minoranza religiosa cattolica, celebre per il suo programma conciliatorio con il Nord. Appoggiato dall’allora presidente Clinton, ha lanciato la «sunshine policy» di apertura con il Nord, come Willy Brandt negli Anni 70 aveva avuto la sua Ostpolitik con la Germania Est. Gli sforzi di Kim si incagliarano all’inizio della presidenza Bush, ma presero nuovo fiato dopo l’11 settembre quando la Casa Bianca approvò una politica sfaccettata di contenimento verso il Nord.
Il successore di Kim fu l’ex sindacalista Roh, forse ancora più morbido. In quegli anni l’opinione pubblica di Seul riscoprì un sentimento pancoreano non totalmente ostile al fatto che il Nord potesse vantare di possedere la bomba atomica, simbolo di potere e prestigio nella politica internazionale. A parlare con diplomatici e intellettuali sudcoreani in quegli anni sembrava che Nord e Sud fossero destinati a riunificarsi e che alla fine la bomba di Kim Jong-il sarebbe diventata la bomba di tutta la Corea.
L’atmosfera però cominciò a cambiare per un misto di ragioni interne ed esterne. L’economia sudcoreana soffriva, Roh venne travolto da una montagna di accuse per corruzione, il problema del vicino al Nord non offriva veri spiragli. La sinistra perse contro l’attuale presidente Lee, noto come il «bulldozer», e al clima mite seguì un gelido autunno di ostilità. Il 23 maggio scorso Roh si è suicidato per gli scandali che lo avevano messo nell’angolo, e il 25 maggio, lo stesso giorno dell’esperimento nucleare, Pyongyang offriva le condoglianze alla famiglia dell’ex presidente. La coincidenza appare come un messaggio dal Nord ultracalcolatore, un’accusa velata all’attuale capo di Stato sudcoreano Lee, che non fa mistero di avere scarsa fiducia nelle promesse dei suoi compatrioti settentrionali.
La difficile alchimia politica intorno alla Corea del Nord è mutata. Mentre Seul fino a un anno fa giocava nella partita un ruolo moderatore rispetto a Stati Uniti e Giappone che spingevano per atteggiamenti più duri con Pyongyang, oggi con Lee gioca nel campo dei duri. Pyongyang ha meno margini, meno sponde, si sente più assediata, e forse anche questo fattore ha aggiunto nuovi elementi all’estrema paranoia di Kim Jong-il.