Enzo Bettiza, La stampa 28/5/2009, 28 maggio 2009
DIETRO LA FOLLIA COREANA
Raramente si era visto un paradosso del genere nelle vicende politiche contemporanee. Da un lato un Paese remoto e isolato, un paranoico residuo del comunismo asiatico, terrorizzato da un tiranno simile nelle ultime foto a un malato terminale, con una popolazione ridotta alla schiavitù e alla fame, che nel giro di un mese fa esplodere un ordigno nucleare potente come quello che distrusse Hiroshima e scatena una grandinata di missili a lunga e media gittata.
Dall’altro lato la condanna unanime della follia atomica di Pyongyang, condanna firmata non solo dagli Stati Uniti ma, per la prima volta, anche dalla Russia e dalla Cina fino a ieri ambigue sostenitrici negoziali della Corea del Nord.
Si tratta di un caso senza precedenti che mette a dura prova la politica della mano tesa di Barack Obama a quei Paesi già definiti dall’amministrazione Bush «Stati canaglia». Alla mano aperta il dittatore Kim Jong-il ha risposto col pugno atomico. Egli inoltre asserisce che nulla è cambiato con Obama nella politica aggressiva di Washington e che la Repubblica popolare di Corea sarebbe pronta, in caso di pericolo, ad affrontare anche una «battaglia» frontale con la superpotenza imperialista.
Non ci sarebbe di che preoccuparsi se le arroganti parole di Pyongyang fossero soltanto parole, non sostenute da prove ed esperimenti distruttivi che, in questo momento, allarmano soprattutto la Corea del Sud e il Giappone, i due principali alleati asiatici dell’America.
Dopo che Pyongyang ha dichiarato nullo l’armistizio del 1953, che pose fine alla guerra di Corea, la possibilità di incidenti anche gravi rientra nel calcolo delle ipotesi strategiche regionali. Il governo di Seul, al quale Washington dichiara il proprio «impegno inequivocabile» a difendere il Paese minacciato dal Nord, fa sapere di voler aderire alla Proliferation Security Initiative (Psi) che consentirebbe alle sue forze navali di intercettare navigli con carichi sospetti. Il regime di Kim Jong-il risponde a sua volta che userà «forti misure militari» ad ogni operazione del Sud volta a fermare e ispezionare imbarcazioni nordcoreane: potrebbe essere la scintilla di una pericolosa deflagrazione a catena nel Pacifico.
Sono note la propensione e l’abilità ricattatoria di Kim nell’usare minacce per estorcere aiuti, vettovaglie, medicinali e dollari con cui lenire la miseria che attanaglia il popolo da lui affamato e oppresso. Può anche darsi che quest’alzata di scudi nucleari da parte del tiranno malato rientri in una torbida lotta di successione per aprire la strada del potere al prediletto dei suoi tre figli, Kim Jong-un. Comunque, le incognite che circondano le mosse dello scandaloso Davide sono infinite quanto lo è l’impotenza dei Golia e della comunità internazionale a decrittarle e prevenirle. La soluzione del quesito coreano è ora affidata soprattutto alla coesione dell’America, della Cina e della Russia nell’affrontare i ricatti e la sindrome da accerchiamento di un regime nevrotico che ha elevato l’atomo al toccasana di tutti i suoi mali.
Per quanto riguarda il noviziato presidenziale di Obama, si può ben dire che la questione atomica si colloca oramai al centro della sua politica estera. Allo scandalo coreano, che per ora è una minaccia simbolica più che reale, si aggiungono, in un contesto ben più incandescente, il Pakistan con l’arsenale nucleare minacciato dai talebani e l’Iran con la cocciuta ricerca di uno status di potenza nucleare. La politica della mano tesa non sembra funzionare quando ci sono di mezzo il plutonio e l’uranio.