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 2009  maggio 28 Giovedì calendario

DUE BORSE, DUE BOMBE E LA NUOVA TESI SU VALPREDA E PINELLI


«Sì, due borse. Lo scriva. Così la finiamo ». È la frase che Silvano Russomanno, l’alto dirigente del Sisde che la sera del 12 dicembre 1969 andò a Milano per gestire le indagini, dice a Paolo Cucchiarelli, il giornalista dell’Ansa che da dieci anni lavora all’inchiesta di oltre 700 pagine che oggi Ponte alle Grazie manda in libreria – titolo: «Il segreto di piazza Fontana», - e che il Corriere ha potuto leggere in bozza.
Due borse, due tipi diversi di esplo­sivo, e quindi due bombe. Una porta­ta in piazza Fontana dall’anarchico Pietro Valpreda. E una – predisposta e collocata dai fascisti – che fa esplo­dere anche l’altra, con una duplice conseguenza: causare una strage, e addossarla politicamente all’estrema sinistra. «Sebbene la bomba di Val­preda non dovesse, nei suoi piani, fa­re vittime, la sua corresponsabilità fi­nì per inchiodare al silenzio lui e tut­ta la sinistra, abbarbicandola a una di­fesa politica che con il tempo ha tra­sformato un segreto in un mistero».

Le fonti
Oltre ai colloqui con Russomanno, Cucchiarelli fonda la sua tesi sugli in­contri con Ugo Paolillo, il magistrato che per primo indagò sulla strage. Sulla testimonianza di un neofascista rimasto anonimo. Sulle carte dell’uffi­cio affari riservati del Viminale, solo in parte utilizzate nelle inchieste e nei processi. E sulla controperizia del generale Fernando Termentini, esplo­sivista che fornisce riscontri alle ipo­tesi formulate nel libro. Fondamenta­le poi l’inchiesta di Salvini che il libro sviluppa descrivendo gli ostacoli frap­posti al magistrato milanese.

Le due bombe
Nel salone della Banca nazionale dell’Agricoltura fu ritrovato uno spez­zone di miccia a lenta combustione. Subito dopo la strage, un rapporto della direzione di artiglieria sostene­va che anche a Roma, alla Bnl di via Veneto, era stata utilizzata una mic­cia. Eppure, nel suo primo rapporto datato 16 dicembre, il Sid cita il timer e solo il timer, dando il proprio sigil­lo all’idea di una strage per errore, so­stenuta nel tempo da Taviani e da Cossiga. «Il timer, caricato prima del­l’esplosione, dava modo di costruire il mito della strage preterintenziona­le; la miccia invece consentiva al mas­simo pochi minuti di ritardo tra l’ac­censione e lo scoppio, e decretava che chi aveva deposto la bomba sape­va, vedendo tutte le persone accanto a sé, che avrebbe sterminato tanti in­nocenti ». I timer usati il 12 dicembre erano timer particolari, a deviazione: «L’ideale per costituire una vera e propria trappola». Poiché erano gli unici con le manopole e i dischetti conta-minuti intercambiabili. Scrive il libro che Franco Freda si procurò timer in deviazione sia da 60 che da 120 minuti: «Se Freda avesse monta­to una manopola da 120 su un timer che avrebbe corso solo per 60 minuti, chi doveva deporre la bomba avreb­be immaginato che sarebbe esplosa a banca ormai deserta».

Le due borse
Tra i reperti individuati dal perito Teonesto Cerri, il primo a entrare nel salone devastato della Banca, c’erano frammenti del materiale di rivesti­mento e frammenti della struttura metallica: «Entrambi indicano che in quel salone sono esplose due borse». Una di similpelle nera, marca Mosbach&Gruber, e una di cuoio marrone. Ma quest’ultima borsa «scompare». Forse per un errore dei magistrati che aprirono la pista nera: «Tutto fu condizionato dalla scoperta che il 10 dicembre 1969 a Padova, la città di Freda, erano state vendute quattro borse Mosbach&Gruber, del­lo stesso modello ritrovato alla Com­merciale », dove il 12 dicembre fu sco­perta una bomba inesplosa. «Tutte in similpelle». I magistrati che puntava­no a incastrare i fascisti Freda e Ven­tura cercarono in ogni modo di ravvi­sare nei reperti proprio quelle quat­tro borse. «Alessandrini e Fiasconaro avanzarono il dubbio che potessero esserci state due borse e due bombe; tuttavia, condizionati dall’acquisto di Padova, scartarono l’ipotesi».

I due esplosivi
Il perito Cerri identificò subito la presenza di nitroglicerina e di binitro­toluolo, tipico degli esplosivi al plasti­co. Più tardi, nel determinare con il collegio dei periti il tipo di esplosivo più probabile, si concentrò su due ge­latine dinamiti. In sintesi: «In piazza Fontana abbiamo due borse con due bombe. Nella prima, accanto alla cas­setta con candelotti e timer, è stato collocato un detonatore esterno. La seconda bomba fu attivata non con un timer ma con un accenditore a strappo, che ha dato il via a una mic­cia. Grazie al detonatore esterno ag­giunto alla prima borsa, la seconda bomba per simpatia fa esplodere anti­cipatamente anche l’altra: creando una devastazione di potenza dop­pia ». Ma chi avrebbe messo le due bombe? «Le due bombe furono poste da gruppi diversi. La prima – che do­veva esplodere a banca chiusa, come fatto dimostrativo – fu collocata da mano anarchica ma ’teleguidata’ da Freda e Ventura; la seconda, che dove­va trasformare la prima in un’arma le­tale, fu predisposta e sistemata da ma­ni fasciste. Ma tutto fu calcolato per­ché la firma risultasse inequivocabil­mente di sinistra”.

Il ruolo di Valpreda
La «mano anarchica» sarebbe pro­prio quella di Pietro Valpreda. «Il 12 dicembre furono due i taxi sospetti che arrivarono in piazza Fontana. Sul primo c’era Valpreda, anarchico con ambigue amicizie tra i fascisti roma­ni »; e c’era Cornelio Rolandi, il tassi­sta che lo riconobbe.

«Sull’altro taxi c’era un uomo di destra che a Valpreda rassomigliava molto. Tutto, attraverso i depistaggi, fu predisposto perché il taxi diven­tasse uno solo, come una sola dove­va essere la bomba». Il libro ipotizza che l’uomo del secondo taxi possa es­sere Claudio Orsi, amico di Freda (una foto mostra la somiglianza con Valpreda).

Era stata la difesa dell’anarchico a parlare per prima di un «sosia». In ge­nere, però, la versione di Valpreda ap­pare costellata di bugie: il libro so­stiene che l’anarchico ha mentito sul suo pomeriggio del 12 dicembre, sul­la sua fantomatica influenza, sul viag­gio a Roma, sul cappotto datogli dai parenti subito dopo la strage per cambiare immagine in vista di un possibile arresto. «Tutte le bugie pro­fuse da lui e dai suoi parenti portano a ritenere che Valpreda abbia colloca­to la sua bomba a piazza Fontana».

I manifesti anarchici
Il libro riporta la foto inedita di uno dei manifesti trovati il 12 dicem­bre, «ricalcati» sui manifesti del Mag­gio francese: «Parte del piano studia­to da servizi segreti per attribuire la strage alla sinistra», e in particolare a Giangiacomo Feltrinelli. Il magistra­to Paolillo si ricorda bene del manife­sto. Ricorda anche di averlo autenti­cato, e testimonia che fin da subito c’era chi aveva capito che la prove­nienza di quei manifesti era di de­stra, legata all’Oas e all’Aginter Press. Capo militare dell’Aginter era Yves Guérin-Sérac, tra i fondatore del­­l’Oas, citato nell’informativa del Sid del 16 dicembre come mente degli at­tentati, ma definito «anarchico».

L’incaricato alla diffusione di mani­festi e volantini anarchici era a Mila­no Pino Pinelli, scrive il libro, ipotiz­zando che fossero proprio questi i manifesti trovati dal capo dell’ufficio politico Antonino Allegra addosso a Pinelli.


Il ruolo di Pinelli
L’alibi di Pino Pinelli per il 12 di­cembre – sostiene il libro – non regge. Pinelli tace sull’incontro con Nino Sottosanti, uno degli estremisti di destra infiltrati nei circoli anarchi­ci; mentre «racconta un incontro con i due fratelli Ivan e Paolo Erda, che non esistono». Nella notte in cui cade nel cortile della questura, Pinel­li è sotto torchio non per piazza Fon­tana, ma per altre bombe. Quelle del 25 aprile, di cui Antonino Allegra gli chiede conto, attorno alle 23 e 30, ci­tando come fonte altri anarchici, in­formatori della polizia. E altre due bombe presto scomparse dalle in­chieste, trovate quel 12 dicembre a Milano, presso una caserma e il gran­de magazzino Fimar di corso Vittorio Emanuele. Il libro ipotizza che Pinelli avesse «qualcosa di ben preciso da nascondere: il fatto che quel 12 di­cembre si era mosso per bloccare le due bombe milanesi ’scomparse’ che gli anarchici avevano prepara­to ».

La caduta
Cucchiarelli riporta la testimo­nianza di Antonino Allegra al diret­tore dell’ufficio affari riservati Fede­rico Umberto D’Amato – divenuta accessibile nel 1997 però «mai rive­lata ai magistrati e mai presa in con­siderazione finora in un’inchiesta» ”, secondo cui Pinelli era caduto di spalle. Testimonianza che il libro incrocia con una delle ricostruzioni esaminate dal magistrato D’Ambro­sio, prima di approdare alla conclu­sione del malore attivo: «Un atto di difesa in direzione sbagliata, il cor­po che ruota sulla ringhiera e preci­pita nel vuoto». La posizione di spal­le spiegherebbe il dettaglio delle suole delle scarpe – l’ultima imma­gine di Pinelli che tutti i testimoni ricordano ”, l’assenza di slancio e la caduta radente al muro, dinami­ca confermata dal giornalista del­l’Unità che assiste alla scena dal bas­so. E il gesto di difesa, ipotizza il li­bro, potrebbe essere stato compiu­to nei confronti di Vito Panessa, il brigadiere che andava incalzando Pinelli sulle altre bombe; «colui che nelle testimonianze ai processi si in­ceppò, contraddisse, ingarbugliò in maniera più marchiana».