Massimo Mucchetti, Corriere della sera 28/5/2009, 28 maggio 2009
IL DISAGIO SOCIALE E’ IN CRESCITA MA IL SINDACATO SI ALLONTANA
Klaus Franz, leader del sindacato Ig Metall nel consiglio della Opel, partecipa con autorevolezza riconosciuta dall’establishment tedesco alle decisioni sul futuro della casa automobilistica di Russelsheim. Gli italiani hanno cominciato a sentirne parlare mentre negli Stati Uniti e in Francia manipoli di licenziati e di licenziandi senza guida assediavano le ville dei banchieri di Wall Street e sequestravano manager e capitalisti, sia pure per poco. E mentre a Torino gruppi di operai estremisti della Fiat contestavano con violenza il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini, il più radicale dei sindacalisti, proprio al termine di una manifestazione sul caso Fiat-Opel. Strano paese l’Italia? Meno di quanto appaia, se si considera che nello stesso periodo la Fiom era stata messa in minoranza nell’assemblea della Piaggio di Pontedera, una sua storica roccaforte, dalle moderate Cisl e Uil. La concomitanza di contestazioni di segno opposto apre un serio interrogativo sulla capacità di rappresentanza del sindacalismo di sinistra, al quale, nell’eclisse di Rifondazione comunista, sembrava essere rimasta la funzione di costituzionalizzare, di tenere nei binari della non violenza, la protesta più disperata.
La recessione fa emergere un diffuso disagio sociale, che però non si manifesta più nel conflitto sindacale. Nel decennio 1969-1978, le ore di lavoro perse per scioperi furono in media 143 milioni l’anno, con una punta di 302 milioni nell’autunno caldo. Nel decennio 1998-2008, si è scioperato in media per 5,8 milioni di ore ogni 12 mesi. Il sindacato italiano sembra aver sotterrato la sua arma più antica e temuta. Ma senza grandi risultati. Certo, ha contribuito all’ingresso del Paese nell’euro, e tuttavia la dinamica dei salari si è rivelata assai inferiore a quella dei redditi da capitale, lavoro autonomo e funzioni manageriali.
La progressiva eclisse del conflitto classico segue profondi mutamenti nell’occupazione e nella struttura dell’impresa. Ancora alla fine degli anni Settanta l’industria assorbiva il 35% dei lavoratori dipendenti. Dopo trent’anni è scesa al 23%. La grande impresa manifatturiera, dove il sindacato aveva il suo storico insediamento, ha ridotto in modo ancor più marcato gli organici. Secondo la Fondazione Tagliacarne, le imprese sopra i 250 addetti hanno ridotto l’occupazione da 1,7 milioni di posti del 1971 ai 952 mila del 2008 e la sua quota dell’occupazione manifatturiera è calata dal 33,5 al 21,3%.
La Fiat Mirafiori, a suo tempo il più grande stabilimento del mondo, è passata da 50 mila a 13 mila addetti. Le unità di lavoro dipendente dell’industria sono ancora superiori ai 4 milioni, cui si aggiungono altri 1,7 milioni nelle costruzioni e in agricoltura. Ma si vanno riconcentrando nelle aziende piccole, la cui quota dell’occupazione manifatturiera è passata dal 41,9 al 57,2% nei 38 anni considerati. E nell’universo dei piccoli, dei distretti industriali, il sindacato è assai meno presente.
D’altra parte, l’impresa fordista, come viene definita la grande fabbrica ispirata all’esperienza dell’industriale Henry Ford, è stata stravolta dall’incesto con la finanza. Nel 1970 la Fiat, impresa fordista per eccellenza, finanziava un attivo composto per il 71,9% da industria e il 28,1% da finanza con capitali forniti per l’87,5% dagli azionisti e per il 12,5% dalle banche. Era una cosa molto solida: Agnelli e ciminiere. Nel 2006 le attività finanziarie erano salite al 70,4% e il contributo delle banche e del mercato obbligazionario alla copertura degli attivi era a sua volta balzata all’ 84,8%. Una cosa assai più fluida. Sergio Marchionne è diventato un collettore di capitali di diversa provenienza: azionisti, banche e mercati finanziari certo, ma anche, e al momento soprattutto, governi e dipendenti. La Fiat, epitome dell’Italia industriale del Novecento, si prepara a negoziare nuovi diritti con i nuovi fornitori di capitali. E così l’arbitraggio tra gli stabilimenti, inevitabile se si conferma l’ eccesso di capacità produttiva, avverrà attraverso la mediazione degli interessi corporativi, nello scambio tra livelli di efficienza attuali e competitività dei territori per costruire i livelli di efficienza futuri. E il sindacato italiano, se vuol conservare una radice industriale nella grande impresa, e non rifugiarsi nei settori protetti della pubblica amministrazione e dei servizi più o meno monopolistici e più o meno privatizzati, dovrà fare i conti con la realtà che cambia: la sua e quella dei Paesi con i quali si troverà in concorrenza.
La Chrysler può sconcertare l’America conservatrice che teme il socialismo a ogni angolo di strada, ma ha poco da insegnare al di qua dell’Oceano: l’idea privatistica del welfare aziendale, che nei momenti d’oro aveva fatto della Uaw una potenza, si è rivelata insostenibile nel mercato concorrenziale e ora il fondo sanitario dei sindacati, pur fornendo il 55% del capitale della nuova Chrysler, avrà un solo seggio sui 9 del board, forse abbastanza per sorvegliare l’andamento di un investimento, certo insufficiente a partecipare alle decisioni. Diverso è il caso tedesco, dove i lavoratori, senza investire un euro, ossia senza «azionariato operaio» hanno la metà meno uno dei voti nel consiglio di sorveglianza che nomina il management e fa le strategie, perché al lavoro si riconosce una dignità altrove negata. Cgil, Cisl e Uil credevano di poter far meglio di tutti scioperando. Ma da tanti anni non lo fanno più. E che cosa è loro rimasto, a parte la forza di un’organizzazione burocratica che rischia di rivelarsi fine a se stessa?