Marco Alfieri e Paolo Bricco, Il sole 24 ore 28/5/2009, 28 maggio 2009
PMI, STORIA DELLA RITIRATA DEL CREDITO
Aprile 2006. Allo sportello succede qualcosa che prima non era mai capitato. I piccoli imprenditori, quelli con meno di 20 dipendenti, incominciano a trovare minore ascolto in banca, dove i funzionari smettono di incrementare le linee di credito loro concesse. Allo stesso tempo, però, gli imprenditori più grandi si ritrovano affidamenti sempre più corposi. Si crea così una vera e propria forbice del credito. Un fenomeno che coincide con il Big Bang delle grandi fusioni bancarie e con una notevole liquidità presente nel sistema. Soltanto che tutto il denaro a disposizione finisce per alimentare grandi operazioni industriali a debito, attività di private equity e investimenti nel mattone. Nel novembre del 2007, punto di massima apertura della forbice, i piccoli possono contare su un tasso di crescita del credito del 6%, gli altri su quasi il 16%. Poi il graduale ma inesorabile calo. Fino alla crisi. E all’inevitabile credit crunch dei piccoli.
A te, sì. A te, no. Non ci sono soltanto le parole pronunciate martedì dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: «Molti dati indicano nelle banche un ritorno alla finanza fine a se stessa: cresce la raccolta, ma non aumentano gli impieghi per le imprese». Da un grafico della Banca d’Italia spunta infatti la pistola fumante che dimostra il diverso flusso di denaro dalle banche alle aziende, a seconda della dimensione.
Un fenomeno che, nelle sue cause più profonde, risalirebbe al Big Bang delle aggregazioni fra colossi, nel biennio 2006-2007. Anche se, oggi, il magmatico mondo dei piccoli è arrivato alla prova della restrizione del credito più robusto e solido finanziariamente di quanto non ci si aspettasse.
Depositata la polvere sulle macerie del credito internazionale, il complicato rapporto fra banca e impresa produce anche in Italia una contrapposizione fra i grandi e i piccoli. Un antagonismo spesso silenzioso, ogni tanto esplicito, qualche volta espresso in modi vivaci, se non bruschi. Da una analisi di Via Nazionale su questo tema, così scabroso per il mondo della rappresentanza e della politica, emerge finalmente una certezza. In un contesto generale di notevole liquidità, dall’aprile del 2006 i destini di quelli che si recano allo sportello divergono, a seconda della dimensione della loro azienda: smette di crescere la disponibilità a sostenere l’attività di chi ha meno di 20 dipendenti, mentre viene finanziata a piene mani quella delle aziende più strutturate.
Il grafico è abbastanza impressionante: dal gennaio 2004 all’aprile 2006, tutto si svolge normalmente, senza una grande differenza fra piccoli e grandi. Perfino nell’estate del 2005, quella dell’assalto al cielo delle cooperative, degli immobiliaristi e dei new comers interessati a Bnl, ad Antonveneta e a Rcs, il sismografo di Via Nazionale non rileva alcuna divaricazione nel credito bancario concesso agli uni e agli altri: il tasso di crescita sui 12 mesi procede senza scossoni variando fra il 5 e l’8 per cento.
Ancora nell’aprile di tre anni fa, il valore per tutte le aziende si attesta intorno al 7 per cento. Il tasso di crescita per i piccoli resta costante iniziando poi, alla fine del 2007, una lenta discesa che, a gennaio di quest’anno, in piena crisi finanziaria internazionale, si sarebbe trasformata in un vera e propria restrizione del credito: un +1% nominale che l’inflazione reale si mangia senza troppi problemi, ponendo le basi per un vero credit crunch. «Tuttavia - puntualizza Pietro Modiano, ex direttore generale della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo - fra 2006 e 2008 nessuno ha mai negato i fidi ai piccoli. Piuttosto, molti di loro si sono autofinanziati. Non dimentichiamoci che quella è stata la stagione in cui le aziende hanno raccolto i frutti della ristrutturazione post-euro: nei casi migliori, hanno potuto anche evitare di venire in banca».
Nel grafico della Banca d’Italia, emerge plasticamente nella curva superiore la bolla composta dall’immobiliare, dal private equity e dalle operazioni a debito dei grandi gruppi: «Nella linea inferiore, quasi piatta, c’è invece la persistenza della virtù italiana dei piccoli», chiosa Modiano. Secondo una elaborazione della Banca d’Italia sui dati della Centrale dei bilanci, per quanto limitata al manifatturiero, fra 1999 e 2006 il leverage è non a caso calato per le aziende a bassa intensità tecnologica dal 56,5 al 51,6%, in quelle a medio-bassa dal 52,2 al 49,5%, in quelle a medio-alta dal 51,8 al 44,7%, in quelle ad alta intensità tecnologica da 49,6 al 43,2 per cento. Il debito così si è ridotto. Proprio mentre di denaro, nelle banche, ce n’era molto.
«Dunque - ragiona il banchiere, oggi alla guida della Carlo Tassara - le imprese piccole sono arrivate al 2006 con una fisiologia finanziaria sana e migliorata rispetto agli anni prima. Non tutte, ma molte hanno guadagnato bene: per questo non hanno avuto bisogno di chiedere più soldi in una stagione in cui l’offerta di credito è stata abbondante e a spread molto bassi. Cosa diversa è quello che succederà adesso, con la crisi economica che congela gli affari. Difficile prevedere quanto capiterà nei prossimi 12-24 mesi».
Qualunque sia la spiegazione per le piccole aziende, per quelle medio-grandi, invece, è stata indubbiamente tutta un’altra cosa. Da un tasso di crescita del 7% registrato nell’aprile 2006 si sale rapidamente fino al picco, toccato nel novembre del 2007, del 15 per cento. Da quel momento, inizia una graduale diminuzione della velocità della crescita che, comunque, per tutti i mesi successivi resta abbondantemente al di sopra del 10 per cento. Per poi tramutarsi in una sorta di atterraggio morbido: a gennaio di quest’anno, mentre le imprese con meno di 20 dipendenti sperimentano una vera e propria restrizione del credito, le altre possono comunque disporre di un tasso di crescita del 7 per cento. Niente male.
Nei tre anni che hanno radicalmente cambiato gli equilibri nel rapporto fra banca e impresa, è la stessa industria del credito che ha sperimentato una profonda metamorfosi, atto conclusivo di una modernizzazione iniziata con la riforma della "foresta pietrificata" congegnata da Giuliano Amato nel 1992 e attuata da Antonio Fazio. Dopo l’uscita di scena di quest’ultimo e l’insediamento a Palazzo Koch di Mario Draghi, la moral suasion del nuovo governatore si è indirizzata soprattutto verso le aggregazioni. Il primo invito - «le banche devono concentrarsi» - è formulato da Draghi il 23 febbraio del 2006. l’inizio: a maggio, salta la fusione Intesa-Capitalia; il 26 agosto è annunciata quella fra Sanpaolo e Intesa e, fra novembre e dicembre, si registra l’aggregazione fra la Banca Lombarda e la Bpu che porta a Ubi.
la stagione del mercato in movimento, che avrà il suo apice nella fusione fra Unicredit e Capitalia, il 17 maggio del 2007, concludendosi l’1 luglio di quell’anno con le nozze fra il Banco Popolare di Verona e Novara e la Banca Popolare Italiana. «Alla fine, la diminuzione della concorrenza - dice l’economista Giovanni Ferri, ex Banca Mondiale ed ex Banca d’Italia - ha comportato una riduzione del potere negoziale delle piccole imprese. Chi prima poteva rivolgersi a due banche, all’improvviso si è ritrovato un solo interlocutore». Tutto questo lo si capisce analizzando i bollettini statistici della Banca d’Italia, dove si scopre che, dal 2001 al 2008, in media le banche per ogni affidato sono scese da 1,58 a 1,34. Per le imprese che hanno un accordato in banca compreso fra i 250mila e i 500mila euro, si cala da 1,75 a 1,46: «Il che - chiosa Ferri - significa che prima quasi tutte avevano due istituti, adesso molte ne hanno soltanto uno. In futuro, questo potrebbe comportare vantaggi con una relazione più stabile. Oggi ha accresciuto i costi delle imprese». La quota di fido accordata dalla prima banca è in media salita dal 53 al 60 per cento; per le imprese con un accordato fra i 250mila e i 500mila euro, è cresciuta da un già consistente 76 all’84%: i piccoli, dunque, sono tenuti per la collottola dalla banca di riferimento. Per loro, dal 2005 al 2008, l’accordato è cresciuto del 5%, mentre l’utilizzato è aumentato dell’8%: gli istituti, che sull’accordato non incassano alcuna commissione, con loro si rivelano abbastanza parsimoniosi e tengono la mano chiusa. Tutto questo, peraltro, non ha comportato particolari miglioramenti negli assetti interni: «Le ultime aggregazioni, quelle verificatesi fra 2005 e 2008, non sembrano avere prodotto particolari guadagni di efficienza», afferma Ferri.
Eros Compagnoni, 48 anni di Treviglio, ha un’azienda di 14 dipendenti che fa mobili d’arte dal 1954. Aveva cominciato suo padre. La tipica azienda familiare lombarda a tutto export (che vale il 70% su 2 milioni di fatturato), tra Russia, Ucraina e Paesi arabi. Una impresa sana e conosciuta sul territorio. Eppure i problemi con le banche non mancano. «Qualcosa si è rotto in coincidenza con la stagione delle grandi fusioni - sottolinea Compagnoni -. Agli Zunino e ai Coppola davano 10 in cambio di garanzia 1; per noi la proporzione era 6-7 a 10». Poi, certo, con la crisi i problemi sono deflagrati. «Fino a pagare il 9,75% di interessi sul fido di conto corrente, quasi da usura, nonostante abbia 250mila euro di titoli a garanzia». Inoltre, «avevo chiesto un’estensione sul fido per 60mila euro per penetrare il mercato cinese dopo i contatti stretti al Salone del mobile, ma niente, anche qui. E lo stesso mi è successo per rifare i cataloghi». Per questo la moral suasion del governo, che spinge le banche a immettere liquidità nel sistema, a Eros Compagnoni sembra più che altro un desiderata sterile. «L’impressione - dice - è che usino i Tremonti bond per tappare le loro falle, sistemare i ratios e ripatrimonializzarsi. O per prestare i soldi ai soliti grandi gruppi. Noi piccoli, di certo, continuamo a non vederli».
Ricapitolando. come se fossimo nel pieno della terza ondata. La prima è stata quella delle grandi fusioni del credito. Il gigantismo che fagocita i territori, portando le prime fughe dei tanti Eros Compagnoni d’Italia dai grandi istituti. La seconda ondata, invece, è più strategica. La dimensionalità non è indifferente al business, perché spinge a misurarti sui grandi numeri e sui grandi deal. L’introduzione di Basilea-2 ha poi fatto il resto: «In questo modo le Pmi diventano sempre più interlocutori marginali», conferma Compagnoni. La terza ondata scoppia con la crisi dei mutui subprime, estate 2007. La crisi di liquidità, le sofferenze sui mutui, lo sboom dei derivati, i crac di Borsa, insomma la cronaca di questi mesi. C’è poi, in questa dinamica, una questione regolamentare in apparenza formale, ma non irrilevante per la sostanza delle cose. Secondo la normativa della Banca d’Italia sui limiti alla concentrazione dei rischi, ciascuna posizione di rischio espressa da una singola impresa affidata va contenuta entro il limite del 25% del patrimonio di vigilanza del gruppo bancario, a livello consolidato. Il risultato è che, nel momento in cui dalla fusione di due banche ne nasce una con un patrimonio di vigilanza più robusto, la grande impresa che prima era cliente soltanto di una vedrà aumentare l’ammontare massimo teorico delle sue linee di credito.
Nelle bolla dei grandi, in concreto, si trova di tutto: l’espansione di quanto resta del capitalismo privato novecentesco e delle imprese post-pubbliche, l’edilizia, gli operatori istituzionali. Nell’ultima relazione annuale di Draghi, che cita rilevazioni di Thomson Financial, si evidenzia come le società italiane, nel 2007, l’anno della forbice fra i grandi e i piccoli, abbiano annunciato 634 operazioni di concentrazione per un valore di 114 miliardi, 30 dei quali connessi all’acquisizione di Endesa da parte di Enel. Per citare alcune operazioni, la galassia Zaleski ha assorbito risorse per 5,4 miliardi, Gemina su Aeroporti ha impegnato 1,4 miliardi, Telco ha movimentato 4,1 miliardi.
Se invece si consulta il Private Equity Monitor dell’Università di Castellanza (Pem), si constata come, tra il 2006 e il 2008, gli affari siano stati 17. Fra i più significativi, quelli su Grandi Navi Veloci, Fiat Avio, Valentino Fashion Group, Mps Asset Management, Ducati e Marazzi. Il valore complessivo delle transazioni è stato di 16,6 miliardi: 10,5 miliardi di debito, 6,1 miliardi di capitale proprio. Dunque, su 100 euro messi nell’operazione, 63 sono state presi a prestito dalle banche.
«In un momento di grande liquidità - ammette Roberto Del Giudice, direttore del Pem e capoeconomista dell’Aifi, l’associazione che raduna gli investitori di private equity e di venture capital - per le banche è stato obiettivamente più facile finanziare i grandi gruppi e gli operatori istituzionali che non gli artigiani e i piccoli imprenditori».