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 2009  maggio 28 Giovedì calendario

«BORSA, IL GRANDE CASINO’ D’ITALIA»


Non capita tutti i giorni di voltarsi indietro a guardare quello che è successo negli ultimi ottant’anni. Lo ha fatto l’ufficio studi di Mediobanca analizzando i dati di Piazza Affari dal 1928. Cosa ne esce? Intanto viene sfatato un mito: e cioè che nel lunghissimo periodo, investendo in Borsa, si guadagni sempre. Non è così: un’intera vita da cassettista non sarebbe bastata a salvaguardare il capitale se non si avesse avuto l’accortezza di reinvestire i dividendi.
Sembra poco, ma la differenza in realtà è abissale. Infatti, un ipotetico investitore che fosse entrato sul mercato azionario a inizio 1928 e avesse "consumato" le cedole, spendendole, si sarebbe infatti ritrovato, dopo 81 anni e quattro mesi (il periodo di osservazione parte da inizio 1928 e termina a fine aprile 2009), con un capitale dal potere d’acquisto decurtato di oltre l’85%: cento delle vecchie lire sarebbero cioè diventate, al netto dell’inflazione, appena 14,7 lire.
L’investitore-formichina che avesse invece rimesso in Borsa i dividendi incassati – le azioni di Piazza Affari mediamente hanno espresso un rendimento del 3,4% all’anno, avrebbe visto il suo capitale iniziale, ipotiziamo sempre pari a 100, aumentare a 227,5 al netto dell’inflazione, con un rendimento reale dell’1% all’anno.
Poco, si dirà, ma chi avesse puntato invece sui titoli di Stato a breve – i BoT di oggi – si sarebbe ritrovato con un pugno di mosche in mano: le sue 100 lire iniziali, massacrate dall’inflazione, sarebbero diventate oggi l’equivalente di 7,1 lire.
Prima considerazione: nel lunghissimo periodo meglio la Borsa dei BoT. Seconda considerazione: meglio sì la Borsa, ma a patto di reinvestire i dividendi. Operazione che nel periodo considerato è di fatto servita per circa il 70% a proteggere il capitale dall’inflazione e per il restante 30% a incrementarlo.
Però, si potrà obiettare, il confronto è "viziato" dagli eventi straordinari del periodo: la grande depressione del 1929, la seconda guerra mondiale, la grande inflazione dell’immediato dopo-guerra, e gli shock petroliferi degli anni ’70 con la conseguente nuova fiammata dei prezzi. Tagliando i primi vent’anni del periodo e ritarando l’analisi dal ’48, i BoT si sarebbero riscattati, ma non avrebbero comunque avuto ancora la rivincita sulle azioni. Sì, perché anche se il rendimento medio annuo dei Buoni del Tesoro, in questo caso, diventa positivo – 1,2% reale, al netto cioè dell’inflazione – non raggiunge comunque la remuneratività della Borsa che, sempre al netto dell’inflazione, fa guadagnare il 3% all’anno.
La differenza tra i due strumenti sta nella volatilità, che in Borsa può giocare brutti scherzi. Se si sbaglia il momento d’ingresso sul mercato azionario, infatti, si rischia di giocarsi il capitale anche tenendo duro per 30 o 40 anni. La regola che deriva dall’osservazione empirica è la seguente: più si allunga l’orizzonte temporale dell’investimento più si attenua l’alea connessa alla variabilità delle quotazioni. Ma ciò non significa che si riesca a non perdere mai.
Dati alla mano (sempre la serie a partire dal 1928), se la durata dell’investimento è limitata a un anno, si può "rischiare" di guadagnare fino al 116% (è successo nel 1946) o di perdere fino al 72% (come nel 1945). Se si allunga il periodo, le punte si smussano, ma subire una perdita media annua dell’ordine del 3-4% non è impossibile: anche reinvestendo tutti i dividendi, nell’arco di quarant’anni ciò significa arrivare a bruciare l’80% del capitale in termini reali, come sarebbe successo a chi, entrando in Borsa nel 1944 ne fosse uscito nel 1983.
In tempi più recenti, Piazza Affari è stata più affidabile. Basti dire che uscendo nel 2006, dopo quarant’anni di indefessa fede nella Borsa, si sarebbe ottenuto un rendimento medio annuo, al netto dell’inflazione, del 2,7%. Uscendo nel 2007, dopo trent’anni da cassettista, si sarebbe invece portato a casa un bel 8,7% annuo.
La morale è che comunque non ci sono certezze. Tuttavia i dati dicono che la Borsa italiana nel lunghissimo periodo è stata più rischiosa delle altre. Passi per Wall Street, che non ha mai prodotto rendimenti negativi per oltre 16 anni. In fondo, il territorio degli Stati uniti d’America non è mai stato teatro di guerre devastanti come invece quello della vecchia Europa. Ma a Londra la serie negativa è arrivata al massimo a 22 anni, nell’Europa continentale ha superato i cinquant’anni solo all’inizio del secolo scorso. A Piazza Affari spetta invece il record della pazienza dei 67 anni: se si commette l’imprudenza di investire nei picchi di mercato, una vita intera potrebbe non bastare per risalire la china in Borsa e tornare alla pari col proprio investimento.
Ok, allora verrebbe da pensare che entrando in Borsa dopo un anno nero non si sbaglia. In effetti, entrando ai minimi, mediamente dopo dieci anni il proprio capitale risulterebbe più che raddoppiato, dopo trent’anni quasi quadruplicato.
Nel breve periodo, però, le delusioni non mancano. Nulla vieta che a un anno di ribassi possa seguire un altro anno di dolori. Per esempio, dopo il -54% del 1944, il 1945 ha portato a Piazza Affari il record dei ribassi a -71,5%. La riscossa è arrivata solo l’anno successivo, con il record dei rialzi a +116%. Per la cronaca, il -48,6% del 2008 è il terzo peggior risultato degli ultimi ottant’anni: il 2009 è ancora da scrivere.
Per contro, vale anche l’opposto. Dopo il +57% del 1997, anche nell’anno successivo il Toro ha scalpitato spingendo l’indice in su del 42,6%.
Alla fine, è una questione di fortuna. Ma, se può consolare, gli anni positivi del periodo considerato – 48 – sono stati comunque più di quelli negativi – 34 – e per la maggior parte (27 casi) hanno prodotto rendimenti compresi tra lo 0 e il 20%. Non c’è che da provare, incrociando le dita.