Maurizio Becker, Musica Leggera giugno 2009, 29 maggio 2009
LA GUERRA NON È MAI FINITA. INTERVISTA A LOREDANA BERTÈ
Il 12 di maggio sono 14 anni che tua sorella Mimì se n’è andata.
Cosa farai quel giorno?
Sparisco. Non rispondo al telefono, né accendo la tv. Mi metto qui a leggere un libro, o finisco un cappellino, o scrivo una canzone. Evito qualunque contatto, perché è una rottura di palle: praticamente da 14 anni ci fanno due funerali all’anno, uno il giorno della morte di Mimì, l’altro il 20 settembre, il giorno del nostro compleanno.
Chi ti diede la notizia?
Io non sapevo niente. Mi guardavo intorno e non capivo: accendevo la televisione e da un lato vedevo Mara Venier che piangeva, dall’altro il telegiornale con la foto di Mimì. Ma che cazzo è successo? Poi mi chiamò Renato: «Vengo su a Milano, ti devo parlare».
Allora capisti...
Poi ho saputo che Mimì era andata due giorni da quel rottinculo del padre, che non vedeva da 40 anni.
Andò a casa sua?
No, lui le ha dato un appartamento del cazzo, dove non c’era niente.
C’era un materasso steso per terra e basta, il suo truccatore mi ha raccontato che Mimì si lamentava, diceva che quel posto faceva schifo e che non ci sarebbe rimasta: «Domani chiudo gli scatoloní e me ne vado». In quel posto c’è stata in tutto 3 giorni: uno da viva e due da morta. Ma in quel cazzo di appartamento ce l’ha messa il padre, poteva tenersela a casa... Poi, quando l’ho vista dentro la bara, era massacrata, piena di lividi.
Cosa vuoi dire?
Che ne so, magari Mimì s’è fatta uno spinello, e lui è entrato e l’ha massacrata. Perché è sempre stato così, un padre padrone. A mia madre la pren¬deva a calci in culo, le dava il veleno.
Non puoi dire una cosa del genere.
Perché no? vero. Voglio vedere cosa mi fa. Cosa cazzo mi fa? Ma lo sai cos’ha fatto al funerale di Mimì? Renato mi ha lasciata sola con lui, nella camera mortuaria. Io non lo vedevo da quando avevo 5 anni, e la prima cosa che gli ho detto è stata: «Figlio di put¬tana! Che le hai fatto? l’hai ammazzata!». E lui mi ha preso per i capelli. Renato mi ha dovuto portare a Roma, per 6 mesi ho fatto delle siringhe, perché in testa avevo dei buchi grandi così, dove mi mancavano i capelli, perché gli erano rimasti in mano. Dai i cazzotti che mi ha dato io sono cascata nella bara di Mimì, che era aperta.
Queste cose le hai già dette, immagino...
Solo da Santoro.
Parli della famosa puntata di Tempo reale dedicata a Mia Mar¬tini...
Sì, quella sera che mi sono messa la felpa di Disneyland per protestare contro questa specie di funerale che avevano fatto a Mimì, con questa pro¬cessione di miei colleghi che firmavano autografi: una cosa che mi ha fatto schifo, sembrava un concerto. Ri¬cordo che Santoro si collegò con uno studio di registrazione a Catania e mi chiese di dire due parole a una ragazza che era li e stava cominciando la sua carriera di cantante. Sai chi era? Carmen Consoli. Io le dissi: «Condo¬glianze». Che dovevo dirle? Questo mondo fa cagare. Le consigliai di cam¬biare mestiere subito, finché era in tempo.
Torniamo alla tua infanzia. Eravate 4 sorelle, ma tu eri legata soprat¬tutto a Mímì...
La prima aveva 15 anni di più, la seonda 8 di meno. Io e Mimì siamo nate lo stesso giorno, il 20 settembre, con soltanto 3 anni di differenza, eravamo come due sorelle gemelle.
Dicevi dell’atmosfera in familia...
Terribile. Avevo 5 anni ma mi ricordo tutto. Sono andata perfino da un giu¬dice per chiedere di togliermi da quel¬la famiglia, perché non mi piaceva. Mi chiedevo: ma non sarà che ci hanno cambiate nelle culle? Ma chi sono questi, che non hanno proprio niente in comune con noi? Questa madre, che quando aspettava me, o Mimì, o quell’altra (Leda) 15 anni prima, se ne andava giù a Bagnara con le levatrici, ci faceva nascere e poi col fagottello se ne tornava su. Io la famiglia non l’ho mai avuta.
Come vi difendevate?
Mimì aveva un sesto senso, aveva capito che quando in casa si sentiva Beethoven a tutto spiano, stavano per arrivare le botte. Allora scappava e mi portava via, mi portava davanti al mare.
Vostro padre era davvero così manesco?
A quella più grande (Leda) un giorno l’ha fatta volare dalla finestra solo perché aveva preso 6 in latino, e lui che era professore di lettere e graco non poteva sopportarlo. Mimì allora, una volta che prese 4 in inglese, non ci pensò due volte e scappò di casa: porella, la ritrovarono tutta graffiata, in mezzo ai rovi di non so quale prato vicino a Roma. L’unico ad averla scampata sono io. Mico ero scema. Ero piccola, ma le cose le vedevo: ad esempio che lui gonfiava di botte la mamma ogni volta che rimaneva incinta. E poi a volte veniva in camera nostra e si faceva le seghe sul letto mio o di Mimì, perché quella non gliela dava. Questo figlio di puttana! Ci ho scritto anche un testo, sulla musica di Notti senza luna. ancora inedito: "una parvenza di famiglia / senza mai sentirsi figlia / un padre padrone, quattro piccole donne e un cane"... Parlo di questo. Il cane era Clito, il nostro collie. Come lassie.
Eppure vostro padre era un insegnante, una persona di cultura...
Certo, dava ripetizioni e anche lì alzava le mani. Molti anni dopo, in America, ero per strada e mi sentii chiamare: «Loredana! Non ti ricordi di me?». No, risposi io. «Sono Scarfiotti. Venivo a casa tua tutti i pomeriggi a prendere ripetizioni di latino. Tuo padre mi dava tantte di quelle bacchettate sulle mani!». Capito? Scarfiotti, quello che ha preso l’Oscar per le scenografie de L’ultimo imperatore.
Quando fu che tu e Mimì non ce la faceste più?
Quando è nato il maschio. Lui la prese a calci nella pancia e io vidi il pavimento dei bagno che aveva cambiato colore: aveva ammazzato l’unico figlio maschio. Allora ce ne siamo andate, io e Mimì.
Non possiamo scrivere questa cosa...
Si dice eccome! Perché è vero! Ha tentato di ammazzarci tutte. A nostra madre cercava di darle il lievito di birra, per farla abortire all’ottavo o nono mese. L’ha avvelenata. E così purtroppo quello lì è morto, non ce l’ha fatta. Io sto dicendo la pura e semplice verità. E poi, questa roba tanto io la faccio uscire. La canzone la rifaccio con il testo vero, non quello di Notti senza luna, che è dedicato a Baudelaire.
La musica rappresentò per voi una via di fuga?
Per me e Mimì la musica è sempre stata una vocazione. Siamo cresciute a pane e musica. A casa nostra avevamo tre brandine, una per me, una per Mimì e una in mezzo per Renato.
Stava da voi?
Lui abitava alla Montagnola, in un condominio tutto abitato da poliziotti. Ce n’erano 150. E allora lui usciva di casa col sacchetto e si vestiva nei portoni. A quel punto finiva che il più delle volte dormiva da noi. Non aveva nemmeno la patente, l’hanno bocciato tre volte all’esame di guida.
Era davvero così stravagante?
Una volta chiesi ad Adriano Panatta di passare per piazza Venezia perché dovevo prendere un amico. Quando vide Renato, gli prese un colpo. Pensa che una volta gli dissi: «Ma sei scemo? Comincia a presentarti senza quella collana con i denti di cavallo».
Ma lui già allora sognava di diventare una superstar. Stava lavorando sulla sua imma¬gine...
Il sogno di Renato è sempre stato affacciarsi da quella finestra a piazza S. Pietro. Voleva essere il Papa. E invece per il fatto di essere gay non ha neppure mai potuto cantare in Vaticano.
E il cinema vi piaceva?
Il cinema? Quale cinema. A noi piaceva partire. Era economico, anche perché andavamo in giro solo in autostop. Andavamo ovunque. Crosby, Stills, Nash & Young facevano un concerto prima di sciogliersi? E noi partivamo per Londra a sentirli. Per noi era come andare a Brescia.
Prima di arrivare ai dischi, sei passata per il teatro...
Al contrario di Renato io il teatro l’ho fatto per davvero. Con Lionello, Tino Scotti, Paola Borboni, una maestra di vita.
Cosa ti ha insegnato?
Prima di cominciare lo spettacolo, mi chiamava sempre nel suo camerino. Era nuda, mi faceva sedere e mi diceva: «Loredana, ricorda queste parole: l’uomo non è altro che la testa del suo cazzo». Questa era la sua lezione, e dimmi tu se non aveva ragione! Poi mi mandava a prendere lezioni di dizione, e io mi permettevo di prenderle da Giusy Raspani Dandolo. Poi ho fatto Bambole non c’è una lira, Antonello Falqui m’ha voluta per forza. C’era un cast stellare, con Tino Scotti, Gianni Agus, Leopoldo Mastelloni, Isabella Biagini, Christian De Sica. Io facevo la soubrettina, tutto dal vivo con l’orchestra, al teatro delle Vittorie.
Che dischi ascoltavi da ragazza?
Quelli che sentiva Mimì. I Beatles: quando usciva un disco dei Beatles, uno qualsiasi, il Thorens girava 24 ore su 24. All’Adriano andai a vedere tutti e quattro i concerti.
E fra le cantanti?
Aretha Franklin. Janis Joplin. E Nina Simone. Soprattutto lei.
Italiane niente?
Le italiane? Davanti a casa nostra c’era un convento di suore. Mimì aveva tutti questi 45 giri e le dava fastidio vedere Rita Pavone accanto ai Beatles. Così un giorno decidemmo di gettare tutti i dischi della Pavone dalla finestra. Dicemmo: ma non è lei che canta dei dischi volanti? Allora glieli facciamo vedere noi. E giù i 45 giri per strada. Le suore correvano a raccoglierli.
Con Mimì andavate anche per locali...
Ballavo tutte le sere, fino alla mattina, al Piper e al Titan. E intanto vedevo tutti: Jimi Hendrix, Stevie Wonder, Brian Auger e Julie Driscoll. Me le ricordo ancora, quelle nottate: io e Mími, sedute sullo scalino della pista. Non ci perdevamo un concerto.
Al Piper ti notò Don Lurio...
Sì, mi sono divertita a fare la Collettina di Rita Pavone. Anche perché la sigla era stata venduta in Messico e noi fummo mandate per tre mesi in tournée.
Te lo ricordi il primissimo concerto che hai fatto in vita tua?
No. O forse sì: penso di averlo fatto a casa davanti allo specchio. Non avevo neanche 5 anni e già mi mettevo la tiara in testa e volevo essere la regina. Con i vestiti di Mimì, che mi diceva: «Ma che stai a ffà?».
Come ti avvicinasti al mondo della discografia?
Appena avevamo due lire, tutti e tre, io, Mimì con la maxigonna che le avevo disegnato io e Renatino con il libro degli spiriti, ci presentavamo alle case discografiche: non ti dico le facce. Ovviamente, trovavamo tutte le porte chiuse. Allora andava Gigliola Cinquetti, puoi immaginare: se non eri come lei, chi ti prendeva? Finché Mimì, per sbarcare il lunario, non si è messa a fare la segretaria di Herbert Pagani, che però non la pagava. Così io le ho detto: «Ma lascia perdere...». Allora ha cominciato a frequentare la RCA, dove erano tutti senza lavoro, tutti in cerca di fare il colpo. Poi un giorno, miracolo, arriva questo esiliato politico ...
Chíco Buarque de Hollanda ...
Lui. Che fa il suo unico disco in Italia. Allora Sergio Bardotti ci porta da lui e si sente chiedere: «Ma queste qui sono brasiliane?». Alla fine, nelle note di copertina, scriverà: «Grazie a Mimì e Lolò». Immagina la situazione: noi dentro a fare cose con Chico, e fuori dalla porta Renato e gli altri, che aspettavano da una vita di fare qualcosa. Stavano lì e sbavavano: «Porca puttana, ma che stanno a ffà? Ma che vi servono solo le donne?». Quando nell’85 sono andata in Brasile a fare Carioca, Chico si ricordava ancora di me.
Poi hai fatto Haír...
Sì, Haír, che fu censuratissimo. E prima ancora Orfeo 9. E i cori di Gesù è mio fratello, per Mia.
Dischi però ancora niente...
Facevamo i cori a tutti. Senza contratto. Non ce se filava nessuno, ma come coristi lavoravamo con tutti. Cantare nei dischi degli altri mi divertiva.
Ad esempio?
Ho cantato in un pezzo degli Alunni dei Sole. E poi in quel periodo mi ero fidanzata con Mario Lavezzi, che faceva parte di un gruppo chiamato Il Volo: dopo aver fatto due miliardi di dischi con Battisti, dovevano cominciare una tournée. Grazie a lui ho fatto un sacco di cori in un sacco di dischi di Battisti.
Questo però non risulta da nessuna parte...
E no che non ce lo mettevo, il nome...
Perché?
Mah, perché... come quella volta che ho fatto un catering per Renato. Era una roba seria, che ci volevo il nome. Ma lui mi ha detto: «A Nì, ma che devi aprì un ristorante?».
Ma cantare in un disco di Battisti non è lo stesso che curare un catering...
Io posso dirti che stavo là, ma non chiedermi le canzoni. Stavo là con un’amica mia, che non mi ricordo come si chiama, e che ora da qualche anno fa la hostess. Una volta l’ho incontrata al banco dell’Alitalia a Los Angeles.
Come mai non sei mai stata accreditata?
Stavo sulle palle a Mogol...
Come fai a dirlo?
A sensazione. Non me l’ha mai detto. Però cercava di evitarmi.
In realtà sei tu che mostri di non avere molta simpatia per Mogol...
Io mi ricordo di questa esibizione che Lucio fece a via Asiago, alla radio (Natale con Supersonic, dei 25 dicembre 1972). C’era anche Mimì, l’aveva invitata Lucio. Ci sono le immagini, quando vedi una tutta vestita tutta di nero, che ogni tanto fa i cori, quella è Mimì. Lucio era così emozionato che sbagliò qualche parolina delle canzoni. E allora Mogol gli venne addosso come una belva e lo umiliò davanti a tutti: «’A Lucio, c’hai ’na faccia da commercialista. Tu te ne devi sta’ a casa, nun te deve vedé nessuno. Puoi cantà, ma te ne devi stà a casa». Avresti dovuto vedere la faccia di Lucio. Ecco, il signor Mogol è questo. Lo stesso che poi ha litigato e rotto con Lucio per un misero 1% di diritti sulle edizioni. Un 1 % del cazzo!
E Lucio con te com’era?
Io e Lucio? Be’, ciao, baci, buongiorno, buonasera...
Però nel 1997 gli hai dedicato addirittura una canzone, che poi è rimasta inedita...
Sì, s’intitola Ciao Lucio. L’ho scritta perché ogni volta che mi capitava di vederlo in TV, mi sembrava un funerale: c’erano sempre le stesse immagini di repertorio, quelle poche che avevano, oppure lui che tentava di cantare fuori all’estero, in Giappone o chissà dove. Allora ho pensato di scrivergli una lettera aperta. Lui era ancora vivo.
morto l’anno dopo. Perché non l’hai pubblicata?
Mi sembrava di sfruttare la sua scomparsa Il Dat ce l’ho ancora, è un provino. Quasi quasi ora la faccio uscire.
Prima hai citato Mario Lavezzi, che è stato il tuo uomo e insieme il tuo produttore. Com’era?
Ti ricordi la canzone di Lucio, queli che dice: "Quel gran genio del mio amico" (Sì, viaggiare, ndr)? Ecco quello di cui parla era Lavezzi, che nelle questioni tecniche era un mago «Lui saprebbe cosa fare, con un cacciavite in mano fa miracoli». Insomma, era un genio. Solo che era sempre pieno di donne, due, tre, quattro per volta. Un casino...
Volevo sapere come produttore, non come fidanzato...
uguale. Lavezzi lavorava al telefono, con le sue varie fidanzate, ne aveva due o tre di squinzie. Si nascondeva sotto il banco col telefono. E io: «Che cazzo stai a ffà?». Gli ho spaccato non so quante chitarre in testa...
Continuiamo la storia della tua gavetta...
Finalmente riuscii a fare dei provini. Il primo lo feci con Maurizio Piccoli. La canzone si chiamava Il guerriero, mi sembra.
A chi ti ispiravi, quando iniziasti a cantare?
Io non ci pensavo, a cantare. Me l’ha messo in testa Bill Conti, con il quale abbiamo fatto due anni di prove, al Sistina, per Hair. Fu lui a convincermi che dovevo farlo.
Se non volevi cantare, quale era il tuo sogno?
Io volevo fare i soldi. Non me ne fregava un cazzo di diventare famosa con la musica. Mi interessava entrare alla RAI, volevo presentare un programma televisivo.
E invece ti prese la CGD. Come arrivasti a Cerruti?
Cerruti che è arrivato a me. Venne a vedere Ciao, Rudy in teatro e decise di mettermi sotto contratto.
Che tipo di discografico era?
Un gran discografico. Uno tosto, alla Melis: se io mi impuntavo su un pezzo che non gli piaceva, mi diceva di no e non se ne parlava più.
La sua maggiore qualità?
Se ne stava seduto nella sua scrivania, ma aveva le antenne sempre accese: non appena sentiva un pezzo, beccava subito se c’era o non c’era. Quando Ivano Fossati gli fece ascoltare i provini di Dedicato e La mia banda suono il rock, Alfredo voleva prenderle tutte e due per me. Ma Ivano non era mica d’accordo: «E io, niente?». Alla fine decise di mollarne solo una, allora io scelsi Dedicato. La mia band suona il rock se la tenne per sé. Cerruti aveva un fiuto della madonna. Streaking fu un’idea sua.
Cosa ti disse Mimì quando seppe che anche tu avresti inciso un disco?
Niente. Mi ha detto solo: «Non fare casini, che ho una certa reputazione».
Per tutta risposta, tu facesti un disco come Streaking...
Che fu censuratissimo, come dei resto anche Sei bellissima La copertina era un poster, negli studi della radio ce l’avevano tutti appeso. Solo che il disco non potevano trasmetterlo, perché c’erano tutte quelle parolacce.
E quando Mímì lo senti?
Non si pronunciò.
Fu un disco coraggioso...
In Italia sono stata la prima a parlare di certe cose. Prendi quando canto "la tua bocca è un palcoscenico". Sai come finisce quella canzone? Finisce con "Cazzo", con me che urlo come una pazza. Quel cazzo ce l’ho aggiunto io, perché ci voleva. Altro che la censura di Sei bellissima, quel pezzo lì era molto più avanti.
Lo si può considerare un disco femminista ante lítteram...
Non solo, anche punk. Altro che Patti Smith. Io sono stata Patti Smith prima di Patti Smith.
Mimì ti fu vicina, durante la realizzazione di Streaking?
Fui costretta a nascondere i provini del disco.
Perché?
Perché Mimì aveva il vizio di andare a sentirsi i pezzi, in via Passarella, all’ufficio edizioni. Se le piacevano, se li prendeva.
Le canzoni le scrissero Riccardi e Albertelli, ma erano veramente cucite su misura per te...
Sì, avevano beccato.
Ti creò problemi il fatto di apparire nuda?
A me no. Avevo fatto pure la copertina di «Playboy», con Frontoni. Non me ne fregava niente.
Ci fu qualcuno che non amò quel disco, alla CGD?
Caterina Caselli, ma Cerruti non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno: il giorno che la signora si è permessa di dire qualcosa, è successo un finimondo. Gliene ha dette di tutti i colori, e se n’è andato. E lì purtroppo è finita anche per me.
Come ti sei trovata negli anni in cui sei stata con loro?
Era una figata. Il vecchio Sugar, Ladislao, era un grande: non sapeva minimamente chi fossi, ma ogni volta che mi incontrava mi metteva una mano sul culo e diceva: «Ma quanto è brava ’sta ragazza!». E poi mi riempiva di regali, avrei potuto aprire una gioielleria in quel periodo: alla CGD avevano l’abitudine di ricordarsi dei compleanni e delle feste e agli artisti distribuivano Rolex e brillanti. A via Quintiliano c’erano delle sale di registrazione fantastiche, di primissima qualità, all’avanguardia, e poi la masterizzazione e tutto il resto. Il bar era una piazza d’armi. Ci incontravi tutti. Alle nove di mattina c’era già Fausto Leali coi giubbotto mio, con su scritto Loredana. Me lo facevo fare appositamente da Camomilla.
Come accadde che con Traslocando Ivano Fossati diventò il tuo produttore?
una storia un po’ complicata. Tornando dall’America, dove avevo fatto Made in Italy con Lavezzi, andai a casa nostra a Colle delle Rose, rividi le mie due 500, i nove cani, e un uomo nero in giardino. Sarà il giardiniere, pensai. E invece no. Scusi, mi apre. A chi? Scoprii che nostra madre aveva venduto tutto e ora la nostra casa di famiglia era l’Ambasciata del Venezuela. Quindi io non sapevo dove andare. Poi mi chiamò il solito Renatino: «’A Nì, c’è la stanzetta tua pronta». Pensando che l’America mi fosse piaciuta, me la fece trovare tutta tappezzata di bandiere a stelle e strisce. Senza sapere che per me l’America è come un supermarket dove non comprerei un cazzo.
E così tornasti a stare con il tuo vecchio amico.. .
Un periodo allucinante: passavo le giornate a sentire i pezzi di Renato dalla mattina alla sera.
Perché, lui ama riascoltarsi?
Scherzi? Da quando ha fatto il primo disco, Renato non ha sentito più un disco che non fosse il suo. pazzesco, le canzoni sue le conosce tutte a memoria vabbé che so’ tutte uguali. Io invece quando canto ho bisogno dei leggìo con i testi, perché non me ne ricordo uno. Per me quando le ho incise è chiusa. Una volta abbiamo fatto un viaggio insieme da Milano a Roma. A un certo punto abbiamo fatto sosta all’autogrili di Sasso Marconi, io sono scesa dall’auto e gli ho detto che preferivo continuare in autostop. E lui, sorpreso: «’A Nì, che è?». Ho dovuto dirglielo: «Basta. O mi metti questo che è il nuovo di Pino Daniele, o te ne riparti da solo».
Accettò?
Sì, anche se a malincuore. Mi disse: «Cazzo, te volevo fa senti pure i provini!».
Come è andata a finire?
Che grazie a Renato sono finalmente riuscita a rintracciare Mimì: «Che famo?». Alla fine abbiamo deciso di non fare niente. Allora lei mi ha detto che stava per andarsene a vivere a Milano Due con Ivano e che poteva lasciarmi la sua stanza di piazza Piola, un buchetto piccolo piccolo, dove c’era appena lo spazio di un armadio a muro e del letto, ma che per me era perfetto. E così facemmo. Poi un giorno mi chiama e mi dice: «Vieni, te faccio la mousse al cioccolato». Io ci vado e trovo anche Ivano, che era in crisi d’identità e non sapeva che fare.
E stato lui a proporsi come produttore?
No, è stata Mimì: «Senti, c’è Ivano che attraversa un brutto periodo. Ho pensato che potrebbe produrti. Ti piace l’idea?». E io: «Mi piace si». Allora Ivano si mette al pianoforte e mi dice: «Prova un po’ ’sta tonalità». Lo fa senza nessuna spiegazione, e per otto mesi mi fa provare sempre la stessa cosa, senza dirmi niente dei resto, senza darmi uno straccio di provino. Io gli chiedevo di farmi sentire la canzone per intero e lui continuava a dire di no, perché altrimenti diceva «poi ti vizi».
Che tipo di produttore è stato?
Sperimentava, si buttava. Quello che non aveva il coraggio di fare nei suoi dischi, lo provava con me. Poi, dopo aver prodotto me per 5 anni, si è lanciato.
A quale di quei dischi CGD sei rimasta più legata?
A Bandabertè. E poi a quello che ho fatto con Pino Daniele, , come il verbo essere (Loredana Bertè, del 1980, ndr).
Con Bandabertè hai portato il reggae in Italia...
Ero in vacanza, mi spostavo tra Santa Lucia, le Barbados e Trinidad Tobago, avevo un Cessna messo a disposizione dall’albergo. Un giorno venni a sapere che c’era un concerto di un certo Bob Marley, così ci andai. E rimasi di stucco, a sentire questo Dio che cantava "Exodus, movement of Jah peopie": «Cazzo, devo avere tutti i dischi!». Quando tornai in Italia li feci ascoltare a Lavezzi e gli dissi: «Studia».
Un’altra tua scoperta è stato Djavan...
Io ho sempre portato nuove idee musicali dai miei viaggi. A quell’epoca ero fidanzata con Roberto Berger, lo svizzero che poi sarebbe diventato il mio primo marito. Ci sono stata due anni da fidanzata e solo un giorno da sposata. Mentre ero in Brasile con lui, alla radio ho sentito questa musica meravigliosa, un rock forte, raffinato, moderno, non il Brasile de mi’ nonno. Allora mi sono presa tutti i dischi, e quando sono tornata li ho dati a Fossati, che prima di metterli su un giradischi ci ha messo dei mesi, perché pensava fosse la solita cagata. Poi però ha capito e immediatamente, nel vero senso della parola, ha scritto la versione di uno dei pezzi di Djavan, con un testo, devo ammetterlo, fantastico. E io, altrettanto immediatamente, l’ho can¬tato. Era Petala. Poi è successo che la CBS gliel’ha mandato e questo Djavan mi ha chiamato, mentre io ero in uno studio a Londra, a fare Savoir faire, che poi fu il mio ultimo disco con Ivano. Quando mi dissero che c’era Djavan al telefono, io mi cagai sotto, perché il suo pezzo l’avevo tagliato come mi’ pareva, e pensavo che si fosse offeso. E invece lui mi disse che gli era piaciuta moltissimo e mi chiese se poteva inciderla con quell’arrangiamento. Ivano e Phil Palmer, che erano lì con me, non credevano alle loro orecchie. Poi Djavan disse che gli sarebbe piaciuto produrmi. Allora io sono andata in Brasile e ho preso un residence a Rio. E sai lì cosa è successo?
No.
Dall’appartamento di fronte sento una radio a tutto volume: era Non sono una signora, ma cazzo, era in portoghese!
In effetti, in Brasile, di Non sono una signora fu fatta una cover...
Da 3 anni era la sigla di una telenovela. Bene: incuriosita, vado a bussare e mi apre una tipa che mi guarda e mi salta al collo: «Loredana Berté!!!». Era la figlia dei governatore di Rio de Janeiro, Neusinha Brizola: era la pecora nera della famiglia, viveva per conto suo ed era una pazza scatenata coi capelli di tutti i colori che di notte andava alle corse clandestine, tipo Fast & Furious. E poi c’aveva ogni tipo di roba, da fumare, da sniffare, insomma tutto quan¬to. Ogni sera si faceva arrestare. Ma per me era roba passata: dopo che le hai provate tutte, basta. Quindi la mollai, perché avevo un disco da fare.
Quindi facesti questo disco con Djavan...
Sì, ma alla CBS mi guardavano come una matta: «Chi cazzo è ’sto Djavan, ma chi lo conosce?». Pensa te. Se ne sono accorti, che quei pezzi erano forti, e nell’85 sono uscita con Carioca. Lo dedicai a Leonardo Pastore, un mio carissimo amico che proprio quell’anno era morto di AIDS.
Chi era?
Leonardo è stato il braccio destro di Elio Fiorucci e poi anche di Luciano Benetton. A New York dividevamo l’affitto di un appartamento di proprietà di Fiorucci, al 49mo piano di una torre altissima, tonda, tutta nera e tutta vetrate. Credo sia lo stesso grattacielo da cui è caduto Conor, il figlio di Eric Ciapton e Lory Del Santo. Comunque, Leonardo ed io avevamo preso in affitto questo loft pazzesco, dal quale si vedeva tutta New York. Ci venivano tutti. Fellini mi mollava sempre Mastroianni: era imbarazzante, gli compravo una bottiglia di whisky, lo lasciavo lì sul divano e Federico lo portavo al Roxy, dove si andava a pattinare. Figurati che con i pattini mi alienavo in casa, spiaccicandomi regolarmente contro i vetri.
Veniva anche Giulietta Masina?
La Masina impazziva per la lavanderia. Un altro che stava sempre lì era Ruggero Miti. Al 19mo piano poi abitava Antonello Marescalchi, l’inviato del TGI: quando andava di fretta, mi chiamava e mi diceva: «Loredà, per caso hai cucinato qualcosa che salto giù a fare un boccone?». Stavo sempre a cucinà, mi chiamavano Pasta quenn! Quel nome se l’era inventato Andy Warhol.
Warhol frequentava casa tua?
E come pensi che riuscii a farmi fare gratis il video di Movie Movie?
Chi te l’aveva presentato?
In quel periodo facevo la madrina di Fiorucci: il primo store che inaugurai fu quello sulla 43ma Strada, proprio grazie a Leonardo.
Quindi a New York facevi una vita mondanissima. Come sei riuscito a farci anche dei dischi?
Era un manicomio. Tipo il primo che feci con Ivano, Traslocando: lui lavorava in studio e io andavo a fare shopping. Un giorno Ivano mi dice: «Ma ti ricordi che siamo qui per fare un disco?». E io: «Tu non mi chiami mai». Il giorno dopo mi telefona e mi dice: «Oggi canti». «E cosa devo cantare?». «Lo saprai quando sei in studio». Era Non sono una signora, la misteriosa canzone che mi aveva tenuto nascosta per mesi.
Cosa ricordi di quella session?
Soprattutto questo fonico americano che si chiama Michael J. Brauer: uno bravissimo che poi si è comprato tutto il building. Lui mi chiese: «Come canti?». E io: «Fumo e vado in giro». Allora lui si mise a provare quattro o conque microfoni diversi, poi visto che io non stavo mai ferma, mi mise davanti questo AKG 314, questo microfono incredibile che di solito si usava per registrare la cassa della batteria. Io con quello invece ci ho cantato, ci ho fatto cinque dischi. Era una bomba, aveva un suono crudo che era perfetto.
Qualche dettaglio in più?
Loro avevano preparato un arrangiamento della madonna. Io arrivo in studio e questo Brauer mi dice così: «Non ti fermare, che t’ammazzo. Falla come ti pare, ma non ti fermare». Cazzo, penso, questi fanno sul serio! Vado di là, mi piazzo davanti al microfono e, senza sapere nient’altro oltre all’inciso, inizio inventandomi un parlato. Poi quando arriva il momento dell’inciso, l’unico che conoscevo, canto. Pensavo di prenderli per il culo. Invece quando è finito il pezzo, dall’altra parte del vetro loro sono diventati di ghiaccio e si guardano senza dire nulla. Mi chiamano. E io protesto: «Allora, me la fai cantare o no? Ora che mi sono scaldata la voce... ». Quello mi guarda e fa: «Non se ne parla proprio. Ho chiamato anche quelli dagli altri studi. Ma come t’è venuto in mente di parlare?». E io: «Come m’è venuta? perché non la so!». E lui: «Dove dovevi andare? A fare shopping? Puoi andare».
Il pezzo era già finito?
Sì, era già finito. Un solo take.