Federico Raponi, Liberazione, 28/5/2009, 28 maggio 2009
«IL COMPITO DELL’ARTE, APRIRE PROSPETTIVE DI ROTTURA»
Intervista a Elio Germano -
Impegno sociale e rifiuto dello "star system". All’inizio attore a teatro, in seguito in fiction televisive e quindi al cinema, con una già sostanziosa carriera e un David di Donatello come protagonista nel film Mio fratello è figlio unico , Elio Germano ha le idee chiare. E con le Bestierare, band hip hop indipendente di cui fa parte da oltre 10 anni, un testo teatrale - "Verona Caput Fasci" - sull’omofobia dei rappresentanti politici scaligeri, la rassegna "la mala distribution" da poco avviata al Volturno Occupato di Roma (proiezioni di film inediti accompagnate dall’incontro con gli autori), si muove anche tra piazze, università, centri sociali.
Il mercato voleva produrre le Bestierare come "il gruppo di Elio Germano", e voi invece avete messo il vostro primo disco scaricabile gratuitamente su Internet…
Sì, e il secondo, "Precario", lo diamo ai concerti gratuitamente o con una piccola sottoscrizione, sicuramente non si trova nei negozi. Le Bestierare hanno una storia cominciata alla fine del liceo, è sempre stata una passione coltivata per il piacere e la necessità di esprimere le nostre idee. Poi, una volta prese strade professionalmente diverse, abbiamo pensato che avremmo potuto uscirne rafforzati divincolando il gruppo da necessità che probabilmente ci avrebbero portato a fare cose che non sentivamo, e che dei produttori ci avevano proposto. Tipo addirittura andare a Sanremo. Certo è un lavoro fatto a casa, poco raffinato e senza pubblicità,
e che quindi arriverà a meno persone. Però è anche sincero, genuino e senza intermediari, cosa che per me è fondamentale.
Da quale esigenza è nato "Verona Caput Fasci"?
All’Università la Sapienza era in programma una festa per raccogliere fondi in seguito all’arresto di uno studente, e io volevo contribuire. In quei giorni ho ascoltato la trasmissione "Facciamo breccia" su Radio Onda Rossa, in cui si leggevano gli atti di un consiglio comunale di Verona in tema di omosessualità, e in più in quel periodo era appena stato ucciso Nicola Tomassoli. Ho pensato che fosse importante diffondere questa eco. Bastava semplicemente riportare quegli atti, perché si giudicavano da soli, non c’era neanche bisogno di farne uno spettacolo politicizzato. Mi sembrava che sarebbe stato ancora più forte con la presenza anche di una donna, e mi è capitato di conoscere l’attrice Elena Vanni. Anche lei stava provando qualcosa per l’occasione e mi ha dato una mano strutturando la messa in scena. Che poi è diventata uno spettacolo perché ce l’hanno chiesto, dopo quella sera, in altri posti. Lo abbiamo portato anche a Verona stessa, in piazza e al circolo Arci "Kroen", e lì è stata un’esperienza forte, con le persone che avevano vissuto le lotte da noi raccontate. Vedere gente che - in quel contesto - ogni giorno organizza anche piccole cose, come il mantenere un appuntamento mensile sulla morte di Nicola per ritrovarsi a discutere, me li fa definire dei veri patrioti. Sono gesti importanti per riappropriarci di umanità, partecipazione, collettività. Il nostro atto di resistenza deve essere questo: vederci, parlare in senso critico di ciò che ci circonda, condividere e mettere in atto la costruzione di un futuro migliore. E se si è mossi da un interesse comune, si è sempre dalla parte della ragione.
La rassegna "la mala distribution" individua uno dei problemi centrali del cinema nostrano…
L’essere stato coinvolto mi ha fatto molto piacere, conosco e ho partecipato a molti film che hanno avuto una distribuzione infelice, per noi che stiamo dentro questo lavoro è una situazione che scotta e cerchiamo di cambiarla, anche sacrificandoci. Portare allora in una sala film anche di estrema qualità, e dai riconoscimenti a livello internazionale, rappresenta un piccolo passaggio iniziale perché ci possano/debbano essere cinema che non mirano al profitto, soprattutto quando si parla di film fatti con soldi dello Stato. Si tratta di un servizio. Capita che gli spazi sociali occupati non vengano capiti e siano tacciati di violenza, mi ritrovo sempre a discutere di questo quando se ne parla. Invece sono animati da persone che mettono a disposizione il proprio tempo per la collettività, andrebbe fatto loro un monumento. La violenza è dello Stato, sia con il fatto che Rai e Medusa/Mediaset siano proprietarie del cinema e della televisione, sia che un film abbia 900 copie ed un altro una sola, sempre che arrivi in sala. Ma l’aspetto che mi sembra assurdo è che non passi neanche in tv a costo zero. Se allora delle persone decidono di proiettarlo, andando contro la legge, penso che andrebbe dato loro il merito - speciale, di questi tempi - di agire per il bene comune. L’unico mio ottimismo è in mano a questa gente.
Rispetto ad un mondo dello spettacolo dominato dalla televisione, dalla smania di apparire, all’opposto lei dice che fa l’attore per scomparire, in quanto il suo lavoro è essere nessuno…
Non dico niente di nuovo, è più recente l’altra concezione. Un tempo gli attori erano i giullari irrisi, presi a pomodorate in faccia, gente senza famiglia che girava campando solo della soddisfazione dell’attraversare vari corpi, storie e realtà. Io ho cominciato a recitare per la passione dell’atto del racconto e rimango legato a quest’idea del lavoro, diventare famoso è stato imprevisto e molto dannoso per come sono fatto emotivamente. Dopo tanto teatro in giro per l’Italia, ero felice che - una volta vistomi sul palco - mi avessero preso per la fiction Un medico in famiglia . Per me voleva dire lavorare, non fare 20, 50 mila lire a serata. Poi sono andate in onda le puntate, e improvvisamente la gente mi aggrediva per strada: «La devi lasciar stare Maria (la protagonista)!», oppure persone che fino ad allora mi schifavano, da quel momento mi hanno messo bambini in braccio per fare foto. Solo un attimo prima ero considerato un povero reietto che non si sa cosa facesse nella vita e inseguiva stranezze, probabilmente uno con problemi. Questo stacco netto, anche di fiducia incondizionata, per me che poi ero la stessa persona di sempre, l’ho vissuto molto male, mi ci avvelenavo, e ho imparato a farci i conti. Se non fossi obbligato per contratto (due settimane non pagate, peraltro) a promuovere un film quando sta per uscire, quindi un anno circa dopo che è finito, lo eviterei. E’ il mio incubo, comincio a tremare 2 mesi prima, non ci sono proprio tagliato. Certe questioni come: «Sul manifesto mettiamo il tuo nome più grande, all’inizio o come 4°?» mi sembrano l’assurdo. Capisco di essere una minoranza, c’è chi dice che lo "star system" potrebbe salvare il cinema italiano. Ma conoscere troppo dell’attore è deleterio: se io so che Brad Pitt è sposato con Angelina Jolie, quando li vedo insieme in un film mi distraggo, penso «Quelli sono marito e moglie» e altro. Così si danneggia l’opera, che non è più un trampolino ma riflette se stessa.
Sostiene che non riesce proprio a recitare in film se non ne condivide pienamente l’intero progetto, e che forse è per questo che spesso paga le conseguenze delle sue scelte. In che senso?
Dopo il David di Donatello ho trovato delle sicurezze, una serenità economica. Improvvisamente ero un attore, dopo 10 anni che già lo facevo. In questo mestiere, hai la necessità di dover dimostrare qualcosa perché non c’è niente che istituzionalmente te lo attesti. Da quel momento hanno cominciato ad offrirmi vari lavori, e mi sono chiesto: «Mi serve una macchina duemila di cilindrata o una casa a Trastevere? No, sto tanto bene così». E poi, fare una barca di soldi con alcuni mesi di fiction significa anche che per strada la gente mi avrebbe riconosciuto, si sarebbe appropriata di me, e io di questo ne soffro. La prassi è avere un ufficio stampa che faccia parlare di te, e io invece non l’ho mai avuto. Non cerco un tam tam mediatico e ne pago le conseguenze, il mio stipendio è misurato su questo tipo di ritorno. Specialmente per chi va in tv è molto più alto, ma è una scelta che non rimpiango. Mi piace andare orgoglioso di ciò che faccio, rispetto allo star male, incazzato col mondo, con tanti soldi con cui non saprei cosa fare.
Per lei l’arte deve provocare, far discutere, mentre a vendere soluzioni ci pensa la televisione…
Il compito dell’arte, prima che fosse legata all’economia, è sempre stato quello di dare un taglio, una luce, una prospettiva diversi. La tv, in questo momento specialmente, viene fatta per riempire spazi tra una pubblicità e l’altra, deve facilitare la visione degli spot. L’input è non interessarsi della qualità ma rassicurare, perché c’è sempre il rischio che la gente cambi canale. Il cinema, allora, potrebbe e dovrebbe essere usato per fare un passo in più verso una visione critica del mondo, per metterlo in crisi e quindi farlo crescere. Invece anche qui si tenta di uniformare e appiattire, per offrire un senso di tranquillità. Ma questa caratteristica non è nel mezzo cinematografico, neanche nelle commedie più popolari di Totò e Alberto Sordi, o anche Paolo Villaggio. A rivederle oggi, hanno anch’esse un taglio critico sulla società. Adesso tutto è eufemizzato, mentre ci sarebbe bisogno di film così.