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 2009  maggio 28 Giovedì calendario

Pubblichiamo un dialogo tra l’editorialista della Stampa e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, Luca Ricolfi, e il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, in occasione dell’uscita del libro La rivoluzione in corso

Pubblichiamo un dialogo tra l’editorialista della Stampa e docente di analisi dei dati all’Università di Torino, Luca Ricolfi, e il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, in occasione dell’uscita del libro La rivoluzione in corso. Il dovere di cambiare dalla parte dei cittadini (Mondadori, 18 euro, pag. 280). In questo volume il ministro racconta come si propone di rendere più efficiente la macchina amminsitrativa del nostro Paese, riducendone assenteismo e sprechi. RICOLFI - «Signor Ministro, il suo libro Rivoluzione in corso (Mondadori 2009) è un racconto di quel che lei ha fatto, sta facendo e farà al Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Però è anche un diario, pieno di aneddoti gustosi, al punto che qualche volta non ho capito se lei descrive la realtà o la inventa per farsi capire meglio. Ad esempio: chi sono gli ”ululatori nei boschi”»? BRUNETTA - «Bella domanda, la stessa che mi sono fatto quando li ho visti fra i consulenti della pubblica amministrazione (con loro tantissimi altri: l’esperto in mandolino, il collaudatore delle scarpe dei vigili, l’addetto al censimento dei cormorani, gli storiografi dei Beatles...). Non ho ancora trovato una risposta convincente ma è anche vero che non sono un esperto, né in boschi né in ululati. Può darsi che siano utili, ma ho qualche dubbio. Non ne ho nessuno, invece, sul fatto che le consulenze chieste dalle amministrazioni pubbliche siano talora grottesche, spesso inutili e, cosa ancora peggiore, in grado di duplicare i costi, chiedendo ad esterni di fare quel che già degli impiegati interni sono pagati per realizzare. Non tutte le consulenze, naturalmente, meritano degli ululati ma la trasparenza, che abbiamo subito imposto, ha aiutato e aiuterà a disboscare». R. - «Insisto, a nome dei lettori della Stampa: qual è il territorio e l’amministrazione pubblica che ha dato consulenze per ”ululatori nei boschi”»? B. - «Insiste? E sia: La Valle d’Aosta pagò 8.750 euro per ”monitorare la specie lupo (canis lupus) mediante il wolf-howling”. L’impresa, non so dirle se ardua o meno, fu affidata a un professore universitario. Un collega. Un altro collega, del resto, questa volta in Val Cavallina, studiò la possibile ”mitigazione dell’impatto del traffico stradale sulle popolazioni anfibie”, che, più o meno, sarebbe lo sforzo di mettere meno rospi sotto le macchine. Meritorio, ne sono certo, ma forse si potrebbe dirlo anche in lingua italiana e non pagarlo 3.000 euro». R. - «Nel suo libro si parla di cambiamenti drastici, in materia di assenze, salario accessorio, risarcimenti del cittadino, trasparenza e varie altre materie. Qual è, fra tutti, quello che lei considera più rivoluzionario?» B. - «Ciascuna è una tessera del mosaico, ancora non terminato, e da nessuna si può prescindere. La chiave che ha aperto molte porte, però, è la trasparenza. Per durare, la mala amministrazione ha bisogno dell’ombra, della riservatezza. Il cittadino, che è pagatore e cliente, non deve vedere e non deve sapere. Deve prendere il disservizio come un dato strutturale, naturale. Deve rassegnarsi. Noi abbiamo fatto l’esatto contrario, accendendo tutte le luci e cercando di dirigerne il cono rivelatore in tutte le direzioni. C’è molto lavoro ancora da fare, perché la luce non è mai troppa». R. - «Come lei sa uno dei problemi della Pubblica Amministrazione è che i trasferimenti e i cambiamenti di mansioni sono difficilissimi da attuare, e sono praticamente impossibili senza l’assenso dei sindacati e dei diretti interessati. Con la sua legge delega di riforma della pubblica amministrazione, cambierà qualcosa al riguardo? B. - «Cambierà tutto, perché si premierà seriamente il merito, rompendo l’immobilismo della stagnazione egualitaria. Un equilibrio nefando, che sembra ispirato alla giustizia, si autodefinisce tale ma, in realtà, favorisce l’incapacità e la svogliatezza, punendo la competenza e la buona lena. D’ora in poi la disponibilità a trasferirsi diventerà un elemento di valutazione positiva che giocherà a favore del dipendente. Ho letto, nelle parole di certi sindacalisti, che premiare il risultato sarebbe una "logica aziendalista". A me sembra logica, e basta». R. - «Provo a tradurre: anche in futuro, come oggi, nessun dirigente potrà trasferire d’autorità un dipendente della Pubblica amministrazione, in compenso potrà premiare quelli disponibili a trasferirsi. Insomma lei punta più sui premi che sulle punizioni: ho capito bene?». B. - «Intanto, il fatto che si sia ragionato sui premi e sugli incentivi dimostra quanto sia stata falsa la lunga campagna propagandistica secondo la quale sembrava quasi volessi mangiare gli impiegati. Invece siamo stati noi, assieme alle diverse operazioni trasparenza, a lanciare quella "non solo fannulloni", mettendo in evidenza i molti casi d’eccellenza ed impegno. Detto ciò, i premi funzionano dal punto di vista della retribuzione, mentre un serio disincentivo alla nullafacenza si vedrà sul terreno della carriera. ora che i dirigenti abbiano responsabilità reali, fra le quali quella di esprimere giudizi significativi sui collaboratori. Nel provvedimento è comunque stabilito un catalogo di infrazioni particolarmente gravi che possono dar luogo al licenziamento per motivi disciplinari: tra questi, l’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze del servizio». R. - «Su molte cose che lei scrive io concordo, però adesso devo dirgliene alcune che non mi convincono, come cittadino e come studioso. Come cittadino non mi è piaciuto il capitolo sulla giustizia, per il tono un po’ sprezzante con cui parla dei magistrati, e per la poca conoscenza dei dettagli del funzionamento della macchina della giustizia. Naturalmente io parlo da cittadino del Nord, però le assicuro che dalle nostre parti se i magistrati rispettassero rigorosamente l’orario d’ufficio, senza portarsi il lavoro a casa, l’output della magistratura crollerebbe. Detto in parole povere: negli uffici come sono oggi è molto difficile scrivere le motivazioni delle sentenze, e il magistrato-tipo lavora ben più di 40 ore la settimana». B. - «Con altrettanto rispetto, naturalmente, dissento dal suo dissentire e osservo che lei non ha seguito la vicenda con la dovuta attenzione. Se lo avesse fatto avrebbe appreso che proprio in un tribunale del nord non solo ogni giudice (parliamo del giudicante, in questo caso) ha la propria stanza e il proprio computer, ma si è dovuto creare un apposito "ufficio intestazione sentenze", perché chi è incaricato di redigere le motivazioni delle sentenze ometteva di farlo. Ora, se ci sono l’ufficio e le strutture, nonché il personale amministrativo di supporto, perché porti a casa le carte? «Temo, insomma, che via sia una leggenda - che ha fatto presa anche su di lei - secondo la quale fare il magistrato sia una specie di lavoro strutturalmente precario, senza mezzi e affidato alla buona volontà dei singoli. E’ totalmente falso. La informo, inoltre, che la nostra è una delle magistrature più informatizzate del pianeta. Allora, se le cose stanno così, perché amministrare la giustizia nel tinello di casa? Con ciò non solo non nego che vi siano magistrati assai impegnati e volenterosi, oltre che competenti. Nego però che si possa porre fine ai guasti enormi della giustizia italiana se si continua a ragionare sui luoghi comuni, anziché sulla realtà. R. - «Adesso le parlo come studioso. Lei dice che la produttività della Pubblica Amministrazione potrebbe crescere del 50%, o che si potrebbe spendere la metà. un po’ di anni che studio il problema, e le mie stime degli sprechi sono diverse: sanità 18%, scuola 25%, giustizia civile 34%, università 29%. Cifre preoccupanti, ma molto più basse delle sue. Non sarebbe più saggio seguire il motto "esageruma nen" del nostro sindaco Chiamparino? Ma soprattutto non sarebbe il caso di evitare i discorsi generali? Le differenze territoriali di efficienza sono enormi...». B. - «Mai esagerato, quindi confermo quel che ho detto. Una cosa sono gli sprechi, un’altra la produttività. Si tratta non solo di aumentare le ore lavorate effettive (si guardi alle percentuali relative all’assenteismo recuperato), che hanno un effetto sulla produttività per addetto. Ma anche di aumentare la produzione di servizi per unità di fattore lavoro e capitale impiegato, compresa la qualità dei servizi. E questa qualità/quantità dei servizi della Pubblica amministrazione, come è noto, deve essere misurata, nei diversi comparti, anche sulla base della loro maggiore produttività come input importanti per tutti i settori produttivi che li utilizzano. Il vero problema è che non vi è abitudine a misurare il prodotto delle amministrazioni pubbliche come lo si fa con altri settori dei servizi, anche perché non è facile. Ci si limita invece alla misurazione di sprechi e spesa. Ma questo è un approccio riduttivo al problema, spesso troppo trascurato dagli economisti. In realtà, l’aumento della produttività nel pubblico può portare a recuperare una parte importante del divario di crescita di cui l’Italia soffre rispetto agli altri paesi europei». R. - «Faccio lo studioso anche io, ma l’accademia non deve perdere di vista le cose ovvie. Pochi giorni fa il Consiglio dei Ministri ha deciso di stralciare dalla riforma la class action dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, rimandandola a tempi migliori: la considera una parziale sconfitta?». B. - «No. Come da impegno del presidente del Consiglio Berlusconi, l’azione collettiva nel settore pubblico entrerà in vigore dal primo gennaio 2010. Il relativo schema di decreto legislativo è già predisposto e verrà mandato al Consiglio di Stato nei prossimi giorni e, sulla base di questo parere, comincerà il suo iter parlamentare probabilmente già prima della pausa estiva. Nessuna sconfitta o cedimento, quindi, ma solo volontà di fare presto e bene ciò che il governo Prodi aveva peraltro colpevolmente stralciato dal suo scalcagnato provvedimento sulla class action». R. - «La cosa che più mi ha colpito nel suo libro è il resoconto dei suoi rapporti con i riformisti del Pd (Veltroni, Fassino, Damiano), che in privato la incoraggiano ad andare avanti e in pubblico mostrano di osteggiarla. Io mi sono fatto un’idea: finché la sinistra riformista farà il doppio gioco, seguendo la doppia parola, la doppia morale, la doppia verità, non ce la farete mai a cambiare l’Italia». B. - «Concordo con lei, ma con una diversa lettura: questo non è il "doppio gioco", è un modo per mettersi "fuori gioco". Loro sanno benissimo che il vecchio modo d’amministrare la cosa pubblica non può essere conservato ma sentono di esservi legati, anche a causa dei condizionamenti corporativi. Piuttosto che evolversi e cambiare, quindi, preferiscono non giocare».