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 2009  maggio 24 Domenica calendario

LA VENDETTA DELLA GEOGRAFIA


A vent’anni dalla caduta del Muro, si ridisegnano le nostre mappe intellettuali. Uomini e idee influenzano gli eventi, ma la geopolitica li determina in larga misura, ora più che mai.
Dopo la stagione del liberalismo armato e dei «neo- con» esportatori di democrazia, si apre
l’era del pragmatismo di Robert D. Kaplan

Vent’anni fa, l’abbattimento del Muro di Berlino da parte delle folle festanti di tedeschi simboleggiò qualcosa di molto più profondo della semplice caduta di un confine arbitrario. Questo evento segnò l’inizio di un ciclo intellettuale che vide tutte le divisioni – geografiche e non – come sormontabili, che usò i termini «realismo» e «pragmatismo» solo in senso spregiativo e che chiamò in causa l’umanesimo di Isaiah Berlin o le inaccettabili concessioni fatte a Hitler a Monaco per giustificare un intervento internazionale dopo l’altro. Sotto questo aspetto, il liberalismo armato e il neoconservatorismo esportatore di democrazia degli anni Novanta condividevano le medesime aspirazioni universaliste. Purtroppo, però, quando la paura di Monaco porta a fare il passo più lungo della gamba, il risultato è il Vietnam, o, nel caso attuale, l’Irak.
E così è cominciata la riabilitazione del realismo, e con essa un nuovo ciclo intellettuale. Il termine «realista» viene oggi usato in segno di rispetto, mentre «neo-con» è indice di derisione. L’analogia del Vietnam ha mandato in soffitta quella di Monaco. Thomas Hobbes, che celebrava i benefici morali della paura e vedeva l’anarchia come la principale minaccia per la società, ha preso il posto di Isaiah Berlin come filosofo del ciclo attuale. Oggi l’attenzione non è rivolta tanto agli ideali universali, quanto piuttosto alle distinzioni particolari, da quelle etniche a quelle culturali e religiose. Chi sottolineava queste cose un decennio fa veniva dileggiato come «fatalista» o «determinista». Oggi viene applaudito come «pragmatista». E questa è l’idea chiave maturata negli ultimi due decenni: che al mondo ci sono cose peggiori dell’estrema tirannia, cose che in Irak siamo stati noi a provocare. Dico questo dopo aver sostenuto io stesso la guerra.
Così, dopo esser stati castigati, oggi ci siamo riscoperti tutti realisti. O, perlomeno, crediamo di esserlo. Il realismo, però, è qualcosa di più della semplice opposizione a una guerra, quella in Irak, che col senno di poi sappiamo essere andata male. Realismo significa riconoscere che le relazioni internazionali sono governate da una realtà più cruda e più segnata dai limiti di quella che regola gli affari interni dei singoli paesi. Esso significa mettere l’ordine al di sopra della libertà, perché quest’ultima diventa importante soltanto dopo che il primo è già stato stabilito. Significa concentrarsi su ciò che divide l’umanità anziché su ciò che la unisce, come avrebbero invece voluto i sommi sacerdoti della globalizzazione. In breve, il realismo ha a che fare con il riconoscimento e l’accettazione di quelle forze che sfuggono al nostro controllo e che pongono dei limiti all’azione umana: la cultura, la tradizione, la storia, le cupe maree di passionalità che giacciono immediatamente sotto alla sottile patina di civilizzazione. Da qui emerge quella che, per i realisti, è la domanda centrale negli affari esteri: chi può fare che cosa a chi? E fra tutte le spiacevoli verità in cui il realismo è radicato, la più sgradevole, la più brusca e la più deterministica di tutte è la geografia.
Di fatto, la forza all’opera nel recente ritorno del realismo è la rivincita della geografia, intesa nel senso più tradizionale del termine. Nel Settecento e nell’Ottocento, prima dell’avvento della scienza politica come una materia accademica autonoma, la geografia era una disciplina onorata – anche se non sempre formalizzata – nella quale politica, cultura ed economia venivano spesso pensate in riferimento alle carte orografiche. Così, nell’età vittoriana e in quella edoardiana, la realtà fondamentale era costituita dalle montagne, dalle pianure e dagli uomini che su di esse nascevano, mentre le idee, per quanto nobili potessero essere, erano soltanto un aspetto secondario. Ciononostante, abbracciare la geografia non significa accettarla come una forza implacabile contro cui l’umanità non può nulla. Essa, piuttosto, serve a limitare la libertà umana e la facoltà di scelta con un pizzico di accettazione del fato. Ciò è tanto più importante oggi, in quanto la globalizzazione, anziché cancellare l’importanza della geografia, la sta rafforzando. I mezzi di comunicazione di massa e l’integrazione economica stanno indebolendo molti Stati, mettendo a nudo un mondo hobbesiano di piccole regioni litigiose. Al loro interno, le fonti di identità locale, etnica e religiosa si stanno riaffermando; e dato che esse risultano ancorate a specifici terreni, il modo migliore per spiegarle consiste nel fare riferimento alla geografia. Come sono le faglie a determinare i terremoti, così il futuro politico sarà definito da conflitti e instabilità segnati da un’analoga logica geografica. Lo sconvolgimento generato dall’attuale crisi economica viene poi a rafforzare ulteriormente l’importanza della geografia, in quanto indebolisce l’ordine sociale e gli altri prodotti della civiltà umana lasciando, come uniche strutture di contenimento, le frontiere naturali del globo.
Così, anche noi dobbiamo ritornare alle mappe e, in particolare, a quelle che chiamo le «zone frantumate» dell’Eurasia. Dobbiamo riprendere quei pensatori che hanno dimostrato di conoscere meglio il territorio. E dobbiamo aggiornare le loro teorie per prepararci alla rivincita della geografia nella nostra epoca.
Se vogliamo comprendere le idee della geografia, dobbiamo andare a cercare quei pensatori che provocano un profondo disagio negli umanisti liberali, quegli autori che pensavano che le mappe determinassero quasi ogni cosa, lasciando ben poco spazio alla libertà d’azione dell’uomo.
Una di queste persone è lo storico francese Fernand Braudel, che nel 1949 pubblicò Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II. Portando la demografia e la natura stessa nel cuore della storia, Braudel contribuì a ridare alla geografia il posto che le competeva. Nella sua lettura della storia, ci sono delle forze ambientali permanenti che conducono a tendenze storiche durevoli, le quali, a loro volta, predispongono l’insorgere di eventi politici e guerre regionali. Secondo Braudel, per esempio, erano state la povertà e la precarietà dei terreni coltivabili attorno al bacino del Mediterraneo, unite a un clima instabile e spesso flagellato dalla siccità, a spingere gli antichi greci e romani nelle loro conquiste. In altre parole, la nostra convinzione di avere il controllo sui nostri destini è solo un’illusione. Per comprendere le attuali sfide poste dal cambiamento climatico, dal riscaldamento dell’Artico e dalla scarsità di risorse come il petrolio e l’acqua, dobbiamo riprendere in mano l’interpretazione ambientale degli eventi sviluppata da Braudel.
Così, allo stesso modo, dobbiamo anche riprendere in esame la considerazione strategica del mare aperto elaborata da Alfred Thayer Mahan, un capitano di vascello statunitense autore de L’influenza del potere marittimo sulla storia, 1660-1783. Vedendo il mare come il grande «spazio comune» della civiltà, Mahan pensava che la potenza navale fosse sempre stata il fattore decisivo nelle lotte politiche globali. Fu proprio Mahan, nel 1902, a coniare il termine «Medio Oriente» per indicare quell’area tra l’Arabia e l’India che rivestiva una particolare importanza per la strategia navale. Di fatto, Mahan considerava gli oceani Pacifico e Indiano come i cardini del destino geopolitico del mondo, in quanto avrebbero consentito a una nazione marittima di proiettare la propria potenza tutto attorno ai confini dell’Eurasia e, quindi, di avere un influsso sugli sviluppi politici fin nelle profondità dell’Asia centrale. Il pensiero di Mahan ci aiuta a capire perché l’Oceano Indiano sarà il cuore della sfida geopolitica nel XXI secolo (e anche perché il suo libro è oggi così di moda fra gli strateghi cinesi e indiani).
In modo simile, lo stratega olandese-americano Nicholas Spykman vedeva le coste degli oceani Pacifico e Indiano come le chiavi per il predominio in Eurasia e come i mezzi naturali per tenere sotto scacco la potenza terrestre della Russia. Prima di morire nel 1943, mentre gli Stati Uniti stavano combattendo contro la potenza nipponica, Spykman predisse l’ascesa della Cina e la conseguente necessità, per gli Stati Uniti, di difendere il Giappone. E anche se gli Stati Uniti stavano lottando per liberare l’Europa, Spykman li mise in guardia avvertendoli che l’emergere, dopo la guerra, di una potenza europea unificata si sarebbe infine dimostrato contrario ai loro interessi. A tanto giungono le previsioni del determinismo geografico.
Forse, però, la guida più significativa per comprendere la rivincita della geografia è il padre della geopolitica moderna, sir Halford J. Mackinder, che è famoso non per un libro ma per un singolo articolo, «Il perno geografico della storia», che ha avuto origine da una conferenza tenuta nel 1904 per la Royal Geographical Society di Londra. L’opera di Mackinder costituisce l’archetipo della disciplina geografica, il cui tema viene da lui efficacemente riassunto in questi termini: « l’uomo, e non la natura, a dare inizio ai processi storici, ma è la natura, in larga misura, a controllarli».
La sua tesi è che la Russia, l’Europa orientale e l’Asia centrale sono il «perno» attorno a cui ruota il destino del predominio mondiale. In un libro successivo, avrebbe indicato quest’area eurasiatica come la «heartland», il cuore del mondo. Attorno a quest’area ci sono quattro regioni «marginali» del continente eurasiatico che corrispondono alle quattro grandi religioni; e questa corrispondenza, secondo Mackinder, non è un caso, in quanto ai suoi occhi anche la fede è meramente subordinata alla geografia. Ci sono due «terre monsoniche»: una a est, perlopiù lungo le rive del Pacifico, che è la patria del buddhismo; l’altra a sud, di fronte all’Oceano Indiano, che è la patria dell’induismo. La terza regione marginale è l’Europa, che è bagnata a ovest dall’Atlantico ed è la patria del cristianesimo. Ma la più fragile delle quattro regioni marginali è il Medio Oriente, la patria dell’islam, «povera d’acqua per la prossimità con l’Africa» e per la maggior parte «scarsamente popolata» (nel 1904, all’epoca della conferenza).
Questa carta orografica dell’Eurasia, e gli eventi che si stavano svolgendo su di essa all’alba del XX secolo, costituiscono l’argomento delle riflessioni di Mackinder, e la frase d’apertura lascia già presagire la loro portata: «Quando, in un remoto futuro, gli storici guarderanno il gruppo di secoli che stiamo attraversando e li vedranno ridotti in uno scorcio prospettico, come noi oggi vediamo le dinastie egizie, essi forse descriveranno gli ultimi quattrocento anni come l’epoca colombiana, ponendo la sua fine a poco dopo il 1900».
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Mackinder spiega che mentre la cristianità medievale era «rinchiusa dentro una regione ristretta e minacciata all’esterno dai barbari», l’età colombiana – l’età delle grandi scoperte – vide l’Europa espandersi al di là degli oceani, verso nuove terre. Pertanto, nel XX secolo, «noi dovremo nuovamente confrontarci con un sistema politico chiuso», questa volta con un «orizzonte mondiale».
«Ogni esplosione di forze sociali, anziché dissiparsi all’esterno nello spazio sconosciuto e nel caos barbarico, verrà invece a rimbombare dagli estremi confini del globo, e gli elementi più deboli nell’organismo politico ed economico del mondo ne saranno di conseguenza sconvolti».
Percependo che gli imperi europei non avevano più spazio in cui espandersi, cosa che avrebbe reso globali i loro conflitti, Mackinder previde, sia pur vagamente, la portata di entrambe le guerre mondiali.
Mackinder considerava la storia europea come «subordinata» a quella dell’Asia, in quanto vedeva la civiltà dell’Europa come il mero risultato della lotta contro l’invasione asiatica. L’Europa, scrive, è diventata quel fenomeno che di fatto è soltanto a causa della sua conformazione geografica: una serie intricata di montagne, valli e penisole, limitata a nord dai ghiacci polari e a ovest dall’oceano, bloccata dai mari e dal Sahara a sud e posta di fronte all’immensa, minacciosa pianura russa a est. In questo paesaggio ben delimitato si riversarono una serie di invasori nomadi provenienti dalle brulle steppe del l’Asia. L’unione di franchi, goti e cittadini provinciali romani contro questi invasori pose le basi della moderna Francia. Analogamente, anche le altre potenze europee ebbero origine (o quantomeno maturarono) attraverso i loro incontri con i nomadi asiatici. Di fatto, furono le presunte angherie commesse dai turchi selgiuchidi ai danni dei pellegrini cristiani a Gerusalemme a offrire il pretesto per lanciare le crociate, che Mackinder considera come l’inizio della moderna storia collettiva dell’Europa. La Russia, nel frattempo, per quanto le sue foreste acquitrinose la proteggessero da numerose schiere d’invasori, cadde preda, nel XIII secolo, dell’Orda d’oro dei mongoli. Questi conquistatori decimarono e, in seguito, trasformarono la Russia. Ma dato che la maggior parte dell’Europa non conobbe mai un simile livello di distruzione, essa fu in grado di emergere come la guida politica del mondo, mentre alla Russia fu in gran parte precluso l’accesso al Rinascimento europeo. La Russia – il modello di impero terrestre, con poche barriere naturali a difenderla – avrebbe imparato per l’eternità che cosa significa essere brutalmente conquistati. E, di conseguenza, sarebbe stata perennemente ossessionata dalla spinta a espandersi e a mantenere il controllo del territorio.
Le scoperte chiave dell’epoca colombiana, scrive Mackinder, non fecero altro che rafforzare la cruda realtà della geografia. Nel Medioevo, i popoli d’Europa erano rimasti in larga misura confinati alla terraferma. Ma dopo la scoperta della rotta attorno al Capo di Buona Speranza, gli europei ebbero all’improvviso accesso a tutta la fascia costiera del l’Asia meridionale, per non parlare delle scoperte strategiche nel Nuovo Mondo. Mentre gli europei occidentali «solcavano gli oceani con le loro flotte», prosegue Mackinder, la Russia si stava espandendo con eguale energia sulla terraferma, «emergendo dalle sue foreste settentrionali» per pattugliare le steppe con i suoi cosacchi, irrompendo in Siberia e mandando i propri contadini a coltivare il grano nelle steppe sud-occidentali. Era sempre la vecchia storia che si ripeteva: Europa contro Russia, una potenza marittima liberale (come Atene e Venezia) contro una potenza terrestre reazionaria (come Sparta e la Prussia). Il mare, infatti, oltre a portare influenze cosmopolite in virtù dell’accesso a porti remoti, offre anche quel l’inviolabile sicurezza dei confini di cui la democrazia ha bisogno per svilupparsi.
Nel XIX secolo, sottolinea Mackinder, l’avvento delle macchine a vapore e l’apertura del Canale di Suez accrebbero la mobilità della potenza marittima europea attorno alla fascia costiera meridionale eurasiatica, così come le ferrovie stavano iniziando a fare lo stesso per la potenza terrestre nel cuore dell’Eurasia. Era pertanto ormai pronto lo scenario per lo scontro per il predominio eurasiatico, cosa che conduce Mackinder a formulare la sua tesi centrale: «Se riflettiamo su questa rapida esposizione delle grandi tendenze della storia, non è forse evidente la presenza di una certa continuità a livello di rapporti geografici? La regione perno della politica mondiale non è forse quella vasta area dell’Eurasia che risulta inaccessibile alle navi, ma che nell’antichità era aperta alle scorrerie dei nomadi a cavallo e, oggi, sta per essere coperta da una rete di ferrovie?».
Proprio come i mongoli battevano alle porte – e spesso le sfondavano – delle regioni marginali attorno all’Eurasia, la Russia avrebbe ora rivestito il medesimo ruolo di conquista, perché, come scrive Mackinder, «le quantità geografiche in gioco sono più misurabili e più grossomodo costanti di quelle umane».
Il determinismo di Mackinder ci ha preparati per l’ascesa del l’Unione Sovietica e della sua vasta zona d’influenza nella seconda metà del XX secolo, oltre che per le due guerre mondiali che l’hanno preceduta. In fin dei conti, nota lo storico Paul Kennedy, questi conflitti sono stati delle lotte per il controllo delle regioni «marginali» di Mackinder, dal l’Europa orientale all’Himalaya e oltre. La strategia di contenimento della Guerra Fredda, inoltre, dipendeva pesantemente dalle basi lungo le fasce costiere del Medio Oriente e del l’Oceano Indiano. Di fatto, la proiezione della potenza americana in Afghanistan e in Irak, nonché le attuali tensioni con la Russia riguardo al destino politico del l’Asia centrale e del Caucaso, non fanno altro che rafforzare ulteriormente la tesi di Mackinder. Nell’ultimo paragrafo del suo articolo, egli lascia balenare anche lo spettro di una possibile conquista cinese della regione «perno», cosa che renderebbe la Cina la potenza geopolitica dominante del mondo. Guardate come gli immigrati cinesi stanno oggi rivendicando demograficamente alcune parti della Siberia, mentre il controllo politico della Russia sui suoi estremi confini orientali si va indebolendo.
La saggezza del determinismo geografico resiste attraverso i secoli perché riconosce che le lotte più profonde dell’umanità non vertono attorno alle idee ma attorno al controllo del territorio, nello specifico il cuore e le fasce costiere del l’Eurasia. Naturalmente, anche le idee contano, e si diffondono attraverso i confini geografici. Ciononostante, c’è una certa logica geografica dietro al fatto che alcune idee mettano radici in determinati luoghi. L’Europa orientale, la Mongolia, la Cina e la Corea del Nord erano tutti regimi comunisti contigui alla grande potenza terrestre del l’Unione Sovietica. Il fascismo classico è stato un problema prevalentemente europeo. E il liberalismo ha messo le proprie radici più profonde negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che non a caso sono sostanzialmente due nazioni insulari nonché due potenze marittime. facile provare avversione verso questa sorta di determinismo, ma è molto più difficile confutarla.