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 2009  maggio 24 Domenica calendario

AZIONARIATO CONTADINO NELLA CORPORATE INDIA


Il 16 di Walchand, davanti al porto di Mumbai, non è un tempio ma solo la sede di un’impresa. Né Dhirubhai Ambani è una delle forme umane in cui si manifestano le divinità del pantheon hinduista: in vita fu solo un imprenditore. Eppure ogni mattina e ogni sera nel salone d’ingresso di Reliance, il personale che entra ed esce si ferma davanti al grande ritratto carico di ghirlande zafferano del vecchio Ambani, e fa puja. La "reverenza" si fa solo a un Murti, a una divinità. «Ma chi le dice che lui non ne sia stata una reincarnazione?», chiede senza scherzare un dipendente.
«Per fare profitto non è richiesto un invito», aveva annunciato Dhirubhai Ambani ai 30mila azionisti convocati nel 1986 al Cross Maidan, il parco pubblico di 19mila metri quadrati nel centro di Mumbai. Nell’India di oggi questo è essere una divinità. Convocare ogni esercizio l’assemblea degli azionisti di Reliance al Barbourne stadium di Churchgate, era come trasformare in miracolo l’approvazione del bilancio. Avere avuto 58mila piccoli e grandi investitori privati già nel 1977, quando in India non esistevano riforme economiche ma solo il «License Raj», l’impero della burocrazia, era qualche cosa di sensazionale.
Ma questo fu Dhirubhai Ambani: l’uomo che ha inventato il culto indiano dell’azionariato. Girava le campagne del Gujarat dove era nato, convincendo i contadini che investire qualche rupia nella sua impresa li avrebbe fatti ricchi. Quando morì a 70 anni nel 2002, nessuno pensò che le sue miracolose opere in terra sarebbero andate perdute. Perché per un Ambani che veniva cremato davanti a migliaia di azionisti arricchiti grazie a lui, altri due Ambani – i suoi figli maschi – avevano dimostrato di avere le stesse doti taumaturgiche. Prima che Dhirubhai morisse, Mukesh e Anil avevano trasformato Reliance commercial corporation in Reliance industries limited: tessile, fibre, petrolchimico, telecomunicazioni, energia elettrica, produzione cinematografica e grande distribuzione. La maggior compagnia indiana privata.
Tutto questo in due generazioni. Le radici dei Birla e dei Tata, i punti di partenza del sistema industriale familiare indiano, il «Corporate India» alternativo a quello gigantesco pubblico, affondavano nel XIX secolo. I primi soldi Dhirubhai li fece negli anni cinquanta ad Aden. Il rial yemenita non valeva nulla ma era coniato in argento: lui requisiva le monete nelle banche, nei suk, al porto e le fondeva, vendendo l’argento a Londra. Quanto bastò per tornare in India e fondare la Reliance con un capitale di 375 dollari, poco più di 15mila rupie di allora.
Dhirubhani veniva, come il Mahatma Gandhi, dalle campagne del Gujarat. Mukesh aveva studiato a Stanford, Anil in Pennsylvania. Dato il medesimo istinto per l’affare e la stessa capacità di visione, era questo il valore aggiunto dei due figli sul padre: l’istruzione. Come in tutte le grandi famiglie industriali indiane che hanno investito i loro primi guadagni nella scuola per i figli. Nell’elenco dei soci dei circoli degli ex studenti di Harvard, Yale e Stanford troverete sempre un Ambani, un Mahindra, un Gojrey, un Birla, un Tata, un Singhania.
Migliaia e migliaia di dinastie industriali e familiari piccole e grandi: solo a Mumbai sono più di 10mila. E non ce n’é una che non abbia mandato i figli alle business school. Se non fosse stato fatto questo investimento primario, le riforme di Manmohan Singh all’inizio degli anni 90 non avrebbero garantito da sole il miracolo indiano.
Ma il pericolo d’implodere che non aveva avuto nel 2002, quando morì Dhirubhani, «Corporate India» lo corse due anni più tardi. Mukesh e Anil avevano idee diverse su come guidare Reliance e alla fine si separarono. Non era mai successo in India. Fu la vicenda più raccontata sui giornali indiani: e nemmeno questo era mai accaduto perché uno dei mantra delle dinastie industriali indiane è l’understatement. «Si tratti dei Bajaj, degli Ambani o di qualsiasi altra famiglia, tutte le dispute devono essere risolte all’interno della famiglia», disse scandalizzato il vecchio Rahul Bajaj, dopo aver tentato una mediazione come «amico di famiglia». Kolikaben, la madre di Mukesh e Anil, aveva anche organizzato un pellegrinaggio propiziatorio nel Gujarat, all’ashram di Morari Bapu, il guru degli Ambani. Ma non c’era nessuno che potesse fermare il dramma che qualcuno paragonò alla spartizione fra India e Pakistan del 1947.
Non accadde nulla, alla fine. Con il consenso informato dei tre milioni di azionisti Reliance si divise: Mukesh si prese il petrolio e le raffinerie, Anil le telecomunicazioni, l’energia e, avendo sposato Tina Munim, una star di Bollywood, anche la casa di produzione cinematografica.
Un anno più tardi quasi nessuno ricordava che un tempo la conglomerata era una sola. Nel 2008 la Reliance industries di Mukesh che ora ha 52 anni, ha denunciato un turnover da 20 miliardi di dollari (più 22% sull’anno prima), profitti per due miliardi (più 20%), esportazioni per sette (più 28%). Secondo «Forbes», con un patrimonio personale di 63 miliardi di dollari nel 2007 Mukesh era l’uomo più ricco del mondo. Anil, il fondatore della Anil Dhirubhai Ambani group, ha un patrimonio di 45 miliardi. A cinquant’anni é solo il secondo uomo più ricco dell’India, ma si accontenta.