Giulia Zonca, La stampa 25/5/2009, 25 maggio 2009
OLTRE GLI OSTACOLI PER GUANTANAMO"
Il simbolo della nuova Cuba ascolta hip-hop americano per caricarsi, adora il gelato di McDonald’s, tiene in casa le foto fatte a Pechino con il Dream Team Usa e si sente «cubano al 100 per 100», faccia di quella nuova generazione che studia la Revolucion, ma si veste come i rapper del Bronx. idolo, esempio, trascinatore.
Dayron Robles ha vinto un oro olimpico nei 110 ostacoli alle ultime Olimpiadi, ha il record del mondo della specialità (12”87), è uno di quegli sportivi cresciuti dal sistema e sbandierati orgogliosamente dal governo. Ed è diverso da chiunque sia stato bandiera prima di lui. Perché è figlio della scuola di stato, ne va fiero ed esibisce il libro su Marx che sta studiando per l’esame di filosofia, però è anche un ragazzo che sa dire «Obama me gusta muchissimo» e «gli americani sono leader in troppi campi per non essere intelligenti».
intriso di storia come chiunque sia cresciuto sull’isola che si nutre di passato. Il centro di perfezionamento degli ostacoli, Università Manuel Fajardo, il posto dove Dayron passa mesi ad allenarsi, sta a Santa Clara, la città che ha trasformato il Che nel comandante Guevara. Qui i castristi hanno combattuto l’ultima battaglia contro Batista e sulla facciata del cinema Camillo ci sono ancora i segni dei proiettili, qui c’è il mausoleo dedicato a Guevara e proprio nell’enorme piazza comunista, che si apre davanti alla statua, gli atleti esibiscono in parata le loro medaglie.
Robles festeggia in un locale più intimo, la Villita, ribattezzata casa Dayron. Un bar che ha appeso al soffitto la sedia preferita dall’ostacolista e sopra c’è scritto: «Recordista mundial, campeon olimpico nell’anniversario della Revolucion», firmato Robles.
Per lei, nato nel 1986, che cosa è la «Revolucion», chi è Che Guevara?
« la nostra storia. La studiamo e la onoriamo. Il Che ha avuto una vita impressionante, nemmeno era cubano, si è guadagnato la nazionalità sul campo. Lo ammiro, non è lo stesso per tutti i ragazzi?».
Lei è nato a Guantanamo città che per il resto del mondo è un carcere. Che effetto fa?
«Per me è casa. Io non posso tenere i premi delle miei vittorie ma lo Stato mi ha messo a disposizione una casa ed è lì che l’ho chiesta. Ci stanno mia madre e i miei fratelli. E vi assicuro che è un posto come un altro, abbiamo avuto anni più ricchi, quando c’era l’Unione Sovietica poi la vita è diventata complicata, ma ho sempre avuto quello di cui avevo bisogno e sono felice che le mie vittorie vengano abbinate a Guantanamo, che il nome della mia città evochi anche belle cose. Più vinco e meno sarà conosciuta per un carcere».
All’Avana non ha una casa?
«Vivo con mia zia e guido la sua macchina, una Chevrolet del 1957. Ne vorrei una mia... ci vuole tempo».
Tempo? A Bolt ne hanno regalata una per i record, perché lei deve aspettare?
«Perché sono cubano, qui è diverso e a me va bene così. Senta, io viaggio molto e non posso fare comparazioni. Noi siamo un Paese piccolo e povero, non siamo ricchi come l’Italia e li vedo anche io palazzi che cadono a pezzi e i problemi economici che abbiamo. Non so fare politica, so che sono un fanatico di Cuba e che non potrei mai vivere altrove. E poi forse per un giamaicano è strano, ma per un cubano è normale fare record del mondo. Lo sport qui è centrale, l’abbiamo nel sangue».
E che pensa dei campioni come lei che hanno usato lo sport per espatriare?
«Scelte. Cuba che mi ha permesso di diventare l’atleta che sono e io mi sento bene quando cammino per le calli dell’Avana, quando vado a mangiare con la mia fidanzata al Fior di Loto, nel barrio chino, quando guardo quelle vecchie macchine che circolano solo qui. Ecco, anche se potessi non ne prenderei una nuova, vorrei un Porsche Cayenne, datato».
Tutto questo come si concilia con l’hip hop e le foto del Dream Team?
«Gli americani fanno un sacco di roba che mi piace e non importa cosa dicono i governanti: sono primi in troppi campi per non essere intelligenti. Prima di una gara io devo caricarmi e quella musica dura e violenta è perfetta. Se devo ballare va bene la nostra salsa».
Che pensa di Obama?
«Mi piace, non ha solo parlato ha già dato segni concreti. I vicini devono comunicare, da quando c’è lui l’America dialoga con Cuba. Prima il presidente degli Stati Uniti era un criminale di guerra. Obama deve solo togliere l’embargo, così anche noi potremo andare avanti».
Crede che ci sia una nuova generazioni di cubani che la pensa così?
«Il tempo passa, le mode cambiano e arrivano persino qui. Ci piacciono i vestiti bianchi, l’alta moda e le catene d’oro. Non ci vestiamo come i nostri padri e non pensiamo come loro».
Come fa a correre con tutto quell’oro addosso, bracciali, catena al collo, orecchini, orologio?
«Mi ci sento a mio agio. Proprio quando tolgo qualcosa la gara va storta».
Porta un crocefisso anche se a Cuba non si può manifestare appartenenza religiosa. cattolico?
« solo un regalo di mia zia. Mi fa sentire protetto, tutto qui».
Dicono che gli ostacolisti per vincere devono essere un po’ matti.
« vero. Io urlo prima di affrontare la pista. La vena di follia è necessaria altrimenti non ti butti in una gara dove puoi cadere rovinosamente. successo a tanti, ci vuole un attimo a toccare un ostacolo e franare».
Lei ha dei problemi alla vista, potrebbe essere un freno nel futuro?
«Porto occhiali speciali in gara, il mio occhio destro è debole e va tenuto sotto controllo. Non a caso il mio idolo è Allen Johnson, anche lui aveva un problema simile».
Un altro idolo americano.
«Sono bravi, che ci posso fare? Anche se non è il passaporto di Johnson che fa la differenza, ma la longevità. Ha corso e vinto oltre i 35 anni. E questo inseguo, i record per i cubani sono normali io voglio durare tanto tempo».