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 2009  maggio 25 Lunedì calendario

IL GATTO E’ FUGGITO DAL SACCO


Il possibile declassamento del debito pubblico britannico pesa come un macigno sulle incerte prospettive della finanza mondiale nella settimana che si apre oggi. Le prime notizie sono circolate giovedì e hanno subito bloccato la timidissima ripresa delle Borse mondiali, fatto scendere la sterlina (che però ha recuperato) e soprattutto il dollaro (che non ha recuperato) e provocato un rialzo nel prezzo dell’oro.
Certo, il debito a carico del governo di Londra non è al livello spazzatura, ma l’indebolimento della sua valutazione è altamente significativo sia dal punto di vista simbolico, sia in una prospettiva pratica. Dal punto di vista simbolico non si può non ricordare che, per il Paese di Margaret Thatcher, patria del liberismo moderno, l’azzeramento del deficit di bilancio e la forte riduzione del debito hanno rappresentato la sconfitta, che si credeva definitiva, dello statalismo. Ora, invece, a essere sconfitta è l’economia di mercato che andrà tutta ripensata per poter davvero significare qualcosa in questo turbolento XXI secolo.
In una prospettiva pratica, va osservato che, per un lungo periodo, il governo inglese aveva contratto prestiti netti assai bassi e addirittura dal 1998 al 2001 aveva operato una restituzione netta di parte del debito.

Poi è cominciata la pressione della spesa, per bisogni sociali trascurati, ai quali si è aggiunta la necessità di utilizzare denaro pubblico per salvare/nazionalizzare quasi tutte le più importanti banche del Paese. Nel 2008-09 il deficit britannico è stato pari al 6 per cento del prodotto interno lordo e nel 2009-10 dovrebbe risultare del 12 per cento, ossia circa 3 volte quello previsto per l’Italia, frutto di quella che The Economist ha definito «la Finanziaria della disperazione» approvata un mese fa. Nel 2013 il debito pubblico britannico dovrebbe raggiungere livelli «italiani» e collocarsi al 100 per 100 del prodotto lordo.
Sono cifre di eccezionale gravità perché anche altri governi, e in particolare quello degli Stati Uniti, stanno perseguendo la strada dell’indebitamento a tappeto. Tra gli altri, Germania, Francia e Spagna (e probabilmente il Giappone) contano di fare ampio ricorso al mercato. Per conseguenza, una valanga di titoli pubblici è destinata a rovesciarsi sui mercati internazionali alla ricerca di compratori; non è detto che le banche centrali di Cina, Giappone e Corea del Sud, tradizionali acquirenti di questi titoli, riescano, e vogliano, farvi fronte perché l’attivo delle loro bilance commerciali è fortemente diminuito.
Nelle scorse settimane negli Stati Uniti si è proceduto a fare lo «stress test», una simulazione delle possibilità di tenuta finanziaria in condizioni estreme di mercato, alle principali banche. Occorrerebbe fare un analogo «stress test» al mercato finanziario mondiale, per verificare le sue possibilità di reggere alla prevedibile ondata di domanda; servirebbe, naturalmente, un’organizzazione internazionale che non esiste e che dovrebbe essere dotata di vasti poteri d’indagine. Si tratta di un argomento appropriato per l’ormai imminente riunione del G8.
Per convincere il resto del mercato all’acquisto sarà probabilmente necessario alzare l’attuale, bassissimo livello dei tassi di interesse. Un rialzo dei tassi, tuttavia, accentuerebbe le difficoltà dell’economia reale, il che rinvierebbe ancora la sospirata ripresa, annunciata con insistenza nelle ultime settimane ma sulla quale pesano fortissimi dubbi. E questo perché il panorama dell’economia reale sembrava essersi schiarito dopo il G20 tenutosi a Londra ai primi d’aprile, anche a seguito di una lunga serie di dichiarazioni rassicuranti dei responsabili dell’economia dei maggiori Paesi, forse concordate a quel vertice. I dati sull’andamento del primo trimestre si sono invece rivelati disastrosi con cali produttivi impressionanti come quello del Giappone (-15 per cento rispetto al primo trimestre del 2008), o comunque molto gravi come quelli degli Stati Uniti e dei maggiori Paesi europei.
C’è quindi da domandarsi se i responsabili delle maggiori economie del pianeta abbiano davvero il polso della situazione o non siano essi stessi spiazzati da una crisi che presenta modalità di propagazione e di espansione almeno in parte nuove. Un ulteriore interrogativo è se continuare a dar credito a «proiezioni» degli andamenti futuri dell’economia, formulate a livello internazionale e nazionale, che vengono regolarmente superate dagli avvenimenti.
A complicare ancor più la situazione contribuisce il prezzo del petrolio. I produttori sono apparentemente riusciti a coordinare le limitazioni della propria offerta e il prezzo è cominciato a salire, nonostante la domanda sia bassa perché molte fabbriche sono chiuse o non lavorano a pieno regime. L’aumento del prezzo rischia di introdurre un ulteriore elemento inflattivo in un quadro economico sufficientemente perturbato. In altre parole, si pensava - parafrasando una nota espressione inglese - che i governi fossero riusciti a «mettere nel sacco» il gatto della crisi. Questo gatto, però, è sfuggito ancora una volta, e più che un ottimismo di maniera serve un rinnovato impegno a cercare un modo appropriato per catturarlo.