Carlo Fruttero, La stampa 24/5/2009, 24 maggio 2009
CONFESSIONI DI UN DECANO
E così, passo per passo, pillola dopo pillola, terapia dopo terapia, sono riuscito a diventare il collaboratore letterario più vecchio di questo glorioso giornale, a quanto risulta.
Un decano, insomma. Il titolo mi piace molto, è solenne, è paludato, è associato a toghe, ermellini, fiocchi dorati.
Mi sarebbe piaciuto anche «presule», ma non so bene cosa voglia dire e credo comunque che sia un titolo ecclesiastico.
Come si diventa decani? Per quanto mi riguarda gli inizi furono scoraggianti. Ero amico personale di Carlo Casalegno e un giorno uscì una nuova traduzione di Robinson Crusoe. Casalegno mi propose di provarci, buttar giù una colonnina. Gliela portai in ufficio, che era allora incredibilmente nella Galleria San Federico. Alti soffitti, silenzio e dietro una porta il temuto direttore Giulio De Benedetti. Casalegno venne, prese il mio foglietto e dopo dieci minuti ritornò col verdetto. Non andava bene, De Benedetti non mi vedeva come decano.
Non successe più niente per molti anni, fino al 1972, quando uscì La donna della domenica. Era allora direttore Alberto Ronchey che organizzò per Lucentini e per me un fastoso ricevimento nella sua casa all’ultimo piano di piazza San Carlo, usato da La Stampa per i suoi direttori. C’era anche De Benedetti, col suo famoso ciuffo, ma ci scambiammo poche parole, sicuramente nemmeno si ricordava di me.
Ronchey ci chiese di scrivere per La Stampa elzeviri a nostro piacere, senza scadenze, senza obblighi di nessun genere, come veniva veniva. E così cominciammo, sulle prime un po’ stentatamente, ma sempre in totale, inverosimile libertà. Nulla veniva concordato e nemmeno suggerito col direttore. Di tanta fortuna facemmo cattivo uso. Eurocentrici, ignorantissimi, nulla sapevamo del mondo islamico, tranne vaghi e tetri ricordi delle Crociate, la battaglia di Lepanto, l’assedio di Vienna. Eravamo a Parigi quando il colonnello libico Gheddafi giunse per non so quale vertice e trattò i giornalisti accorsi con molta arroganza. Scrivemmo un pezzo non certo contro il colonnello ma dove si prevedeva il gossip idiota in preparazione tra i nostri inchinevoli concittadini. «Pare che» s’intitolava e riferiva chiacchiericci di bar e di salotto facilmente immaginabili. La solita dietrologia trash.
All’epoca pochi studiosi, qualche diplomatico, alcuni agenti segreti avevano idea dello scontro di civiltà, del senso di frustrazione diffuso tra i musulmani, della loro estrema suscettibilità. E soprattutto di una radicale incompatibilità tra la nostra idea dell’umorismo e la loro. (Conviene però ricordare che né l’Inquisizione spagnola, né i puritani di Cromwell, né i giacobini, né i gerarchi SS dovevano essere molto portati al sorriso. Ah, la noia di questi vani fanatismi!).
Il colonnello non stette allo scherzo, anzi lo prese malissimo. Chiese alla Fiat di licenziare il direttore ebreo Arrigo Levi e di troncare ogni collaborazione con noi, minacciando il boicottaggio totale degli automezzi Fiat in tutti i paesi mediorientali. Eravamo precipitati in un «evento», parola per noi irritante e ridicola, lontanissima dal nostro modo di vivere. Vennero giornalisti da mezzo mondo, ricordo quelli di Time Magazine a scattare foto di me e dei miei sul balcone di corso Cairoli dove allora abitavo. A Levi fu assegnata una scorta armata e molti amici ci assillarono perché andassimo a nasconderci in remote case di campagna con i nostri cari. Un mio parente, dirigente Fiat, quasi mi tolse il saluto. Ma noi prendemmo sotto gamba tutta la faccenda, troppo assurda per essere vera. Ridevamo, come Franti. La Fiat non fece una piega, non ci rimproverò niente, non ci raccomandò niente, non si fece viva. Anni dopo, incontrandolo a una cerimonia, l’avvocato Agnelli ci disse che gli eravamo costati cari. Noi rispondemmo però che la Fiat aveva dato una lezione di impassibilità e fermezza piemontese, se non anticoromana, a tutto il mondo. Già, disse l’Avvocato, ma non potevamo fare altro. Vero, ma chi, allora come oggi avrebbe reagito così? Dopo quell’increscioso incidente non successe più nulla di memorabile. Scrivevamo i nostri pezzi, li mandavamo al giornale, limitandoci a evitare di menzionare anche indirettamente quelle tumultuose genti di cui per primi avevamo sperimentato gli indignati furori.
Ci fu qualche divertente polemica sull’eterna questione delle Ferrovie italiane e su altre piccole faccende d’attualità. Quando uscì Tuttolibri cominciammo a scrivere anche recensioni. Nico Orengo, sempre un po’ malignetto, ci segnalava ogni tanto certe sciocchezze del mondo letterario che noi commentavamo a colpetti di spillo. Due attempati killer, ci definì un perforato. Scrivemmo una colonnina affermando di essere i figli illegittimi di Renato Guttuso e il mio farmacista mi raccontò che due o tre clienti erano venuti a chiedergli se fosse vero. E così avanti, anno dopo anno, riga dopo riga. Io dettavo i miei pezzi al telefono a La Stampa ma ben presto quel servizio fu ridotto a un’unica persona e infine venne soppresso. Adesso me la cavo col computer di mia figlia, cui detto via via le mie ultime pagine di decano. Faccio i migliori auguri a chi verrà dopo di me ma confesso che ci terrei a conservare il titolo ancora per un po’, francamente.