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 2009  maggio 26 Martedì calendario

Vendono: non più le materie prime, stavolta vendono la terra, grassa, ricca, che una agricoltura da secoli gratta appena in superficie, o che è rimasta incolta per mancanza di mezzi, di braccia, di capitali

Vendono: non più le materie prime, stavolta vendono la terra, grassa, ricca, che una agricoltura da secoli gratta appena in superficie, o che è rimasta incolta per mancanza di mezzi, di braccia, di capitali. Milioni di ettari d’Africa ingoiati in un sol boccone, 2,41 in cinque anni, in Etiopia Ghana Mali Sudan e Madagascar con la semplice firma in fondo a un contratto, ceduti per venti, trenta, novanta anni, per sempre, come colonie agricole; e gli uomini che vi sopravvivono sono venduti con loro, senza aver diritto di dire no, come ai tempi della servitù della gleba. E del colonialismo. Che oggi ha i colori (e i dollari) delle autocrazie petrolifere, della Cina e dell’India, della Corea. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari, Pechino ne ha comprati 2,1 milioni, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati 1,3. Eccoli i nuovi imperi in nome dell’agrobusiness. Tecnici, amministratori, capi arrivano dall’estero; i locali sono usati solo come forza lavoro sottopagata e addomesticata. Vendono: le infami, fradice élites, i presidenti coronati da elezioni-plebiscito al novantanove per cento. Quelli che non possono arricchire i loro conti nelle banche europee con il petrolio il rame l’oro i diamanti, vendono l’Africa con la sua anima, i suoi orizzonti. Sono contratti mai resi pubblici, opachi come segreti di stato. Si compra bene l’Africa: nel Nord del Sudan il «feddan» (0,42 ettari) è affittato a due, tre dollari l’anno. In Etiopia l’ettaro è valutato tra 3 e 10 dollari. C’è chi dice, anche la Fao, con molte cautele e molti dubbi che potrebbe essere una occasione per lo sviluppo: ovvero che nel continente troppe terre sono abbandonate o mal sfruttate. Forse: ma la realtà è che con la terra si svende anche la speranza degli africani al cambiamento, che nascono camuffate dietro il diritto della efficienza e della produttività nuove schiavitù. Tra qualche anno in Sudan plebi in perenne bilico sulla carestia, sfiancate dalla guerra civile vedranno passare davanti ai loro campi sterili e arroventati camion stracarichi di ottimo grano: ma non ne toccheranno un chicco, è destinato agli abitanti degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita, di un consorzio giordano che hanno comprato 400 mila ettari per trasformarli nel proprio privatissimo granaio. Comincia a preoccuparsi anche l’Onu, dopo un allarmato studio condotto in otto paesi dall’Istituto internazionale per l’ambiente e lo sviluppo. Entro il prossimo anno ci saranno in Africa un milione di operosi contadini cinesi, addetti a 14 gigantesche fattorie che Pechino ha comprato in Zambia Uganda Tanzania e Zimbabwe. Metteranno a cultura le nuove varietà ibride di riso create dai cinesi che permettono di aumentare la produzione del 60 per cento: serviranno a sfamare i sudditi del capital-comunismo la cui agricoltura è in pericoloso ritardo sullo sviluppo. Affiorano i problemi di questa grande razzia e sono politici. Daewoo Logistics, filiale agricola del grande gruppo industriale sudcoreano ha affittato in Madagascar un territorio grande come la metà del Belgio, 1,3 milioni di ettari. Per la durata del contratto, 99 anni, saranno seminati a mais e coperti di palme da olio. Daewoo vuole sfamare il mercato coreano con 4 milioni di tonnellate di mais e 500 mila tonnellate di olio ogni anno: in cambio investirà 4,8 miliardi di euro su 25 anni per bonificare le terre, installare le infrastrutture e comprare le sementi negli Usa e in Indonesia. Ebbene è la prima vendita di terre che ha innescato una rivoluzione vittoriosa: il presidente venditore è stato cacciato da un sussulto di orgoglio nazionalistico. Una volta erano United Fruits, Dole o Michelin a comprare stati interi per trasformarli in monocolture, di gomma o di banane. E facevano e disfacevano i governi e i presidenti. Ora sono gli stati petroliferi del Golfo e le Tigri asiatiche che affittano gli stati e i loro dirigenti. Si agisce con accordi espliciti, da stato a stato. Dove, come in Mozambico, la costituzione vieta di vendere la terra a stranieri, la Cina ha messo in piedi un consorzio «locale». Rarissimi i casi in cui una parte della produzione servirà a sfamare i mercati locali. Il consorzio Bin Laden, i parenti non terroristi del capo di Al Qaeda, ha comprato 500 mila ettari in Indonesia per produrre riso. Ha annunciato che una parte sarà venduta ai locali. Motivo: «Per evitare che diano seccature».