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 2009  maggio 24 Domenica calendario

PAKISTAN, RESA DEI CONTI CON I TALEBANI I PROFUGHI: «PRONTI DECINE DI KAMIKAZE»


I racconti della popolazione in fuga: «Gli islamici uccidono gli anziani dei villaggi»

PASSO DI MALAKAND – Scatta la fase cruciale della bat­taglia per il controllo della val­lata di Swat. Come avevano promesso da tempo, le unità scelte dell’esercito pachistano hanno iniziato nelle ultime ore a penetrare le periferie di Min­gora (oltre 200.000 abitanti), il capoluogo dove si trova anche la base centrale del Maulana Fazlullah, considerato il mag­gior leader talebano della regio­ne. Le poche e confuse notizie dalle zone di battaglia parlano di scontri cruenti, con ben po­co rispetto per le convenzioni di Ginevra. I profughi in fuga raccontano di «decine di taleba­ni kamikaze» ancora pronti a farsi saltare in aria contro le truppe. Nel villaggio di Puchar i soldati hanno impiccato i tale­bani catturati, lasciandoli poi a penzolare dagli alberi. In quel­lo di Sharzay invece ne hanno gettato dagli elicotteri i cadave­ri avvolti in sacchi di plastica direttamente sulle postazioni talebane. Artiglieria e aviazio­ne sparano da lontano, non ap­pena sorge il sospetto di aver individuato un covo nemico. «Questa volta è sfida all’ultimo sangue. I danni collaterali non si contano, ma probabilmente non c’erano alternative. I tale­bani si nascondono sulle mon­tagne e tra la popolazione. In uno scontro tanto cruento è ab­bastanza credibile il numero di oltre 1.000 talebani uccisi in tre settimane fornito dai porta­voce militari, ma facilmente al­la fine scopriremo che anche le vittime civili sono molto nume­rose », sostiene Syed Talat Hus­sein, noto reporter di Hajj Tv di Islamabad.

A guardare il campo di batta­glia dal passo di Malakand è più facile farsi un’idea di que­sta guerra brutale e remota. Dal 2 maggio ha già causato ol­tre due milioni di profughi. E non ci sono accenni di cessate il fuoco. Dalla pianura, che da qui porta ai campi profughi at­torno a Mardan, Peshawar e Sawabi, quindi si apre a sud verso il Punjab, la strada si im­penna quasi all’improvviso, sa­le i primi pendii dell’Hindu Ku­sh che sono subito scoscesi, friabili, fatti di rocce e terra gri­gio- rossastre. «Se osserviamo la geografia di Swat, ma anche delle altre aree del conflitto co­me il Buner e Dir, scopriamo subito alcune costanti. Sono vallate impervie. Per dominar­le non basta occuparne i centri urbani. Occorre prima di tutto prendere le creste più alte, se­tacciare le foreste, le valli latera­li, e soprattutto il dedalo di grotte e cunicoli lontani dagli alpeggi che sin dai tempi di Alessandro il Grande costitui­scono i nascondigli preferiti dalle milizie locali», spiega Za­far Abbas, direttore del giorna­le in lingua inglese Dawn. Al­tro elemento comune: queste zone rimasero praticamente staterelli indipendenti sino al 1969, ben 22 anni dopo la nasci­ta di India e Pakistan nel 1947. Gli abitanti di Swat (un mi­lione e 257 mila nel censimen­to del 1998, ma oggi sarebbero il doppio) godettero del privile­gio di poter mantenere il loro sistema giudiziario fondato su una lettura molto conservatri­ce della sharia, la legge religio­sa islamica, addirittura sino al 1974. E l’interpretazione più diffusa è che oggi i talebani in larga parte non siano che il ri­sultato di questi fattori. Una volta che lo Stato centrale pa­chistano fallì nel sostituirsi alle antiche istituzioni di auto-go­verno (le jirga degli anziani che amministrano la giustizia con l’aiuto del Corano, le con­suetudini tribali, i mullah più forti), ci avrebbero pensato i ta­lebani ad imporre con violenza la loro interpretazione estremi­sta della sharia.

A ben vedere però questa volta sono presenti elementi profondamente diversi. «I tale­bani sono diventati troppo ag­gressivi, fanatici, dominati da Al Qaeda. Hanno distrutto cir­ca 200 scuole per ragazze in po­chi mesi, torturano e ammazza­no chi rappresenta il governo centrale, vietano alle donne di uscire di casa se non accompa­gnate da un parente. Ma la co­sa peggiore è stato vedere l’as­sassinio metodico degli anzia­ni delle assemblee di villaggio che li criticavano», racconta Ka­mal Neak, 30enne maestro fug­gito con la moglie Sabah e i tre figli dal villaggio di Kanju e ora riparato nel campo profughi di Jalala. Non è una voce solitaria. In una decina di giorni abbia­mo raccolto diverse testimo­nianze di profughi: c’è chi po­ne sullo stesso piano esercito e talebani (di cui i civili sarebbe­ro comunque vittime), e chi è invece decisamente convinto che i talebani vadano combat­tuti.

« un fatto nuovo. Perché i talebani, sebbene quasi tutti provenienti dagli strati più po­veri della società pashtun, so­no sangue del nostro sangue. Ho due cugini più giovani che hanno preso il Kalashnikov e ora militano tra i ranghi del mullah Fazlullah. Io stesso eb­bi la tentazione di unirmi a lo­ro in passato. Ma poi ho visto che erano troppo influenzati dai militanti arabi filo Al Qaeda che hanno trovato rifugio nelle nostre valli», aggiunge Kamal. Davvero un fatto nuovo.

Ancora nell’estate 2007, quando l’ex presidente Pervez Musharraf lanciò alcune mas­sicce offensive nel Waziristan, le popolazioni delle «zone triba­li » al confine dell’Afghanistan si schierarono compatte con i talebani. «Ora non più. Adesso è davvero troppo. Ancora in marzo, quando il governo Zar­dari strinse un accordo per estendere la sharia allo Swat, la popolazione era con loro. Ma quando fu evidente che per i ta­lebani era solo il modo di allar­garsi, è cresciuto il malconten­to », affermano due medici nel­la clinica di Jalala.

Nel centro di assistenza del­l’organizzazione islamista Ja­mat Al-Dawa vicino al passo di Ambela, primo punto di risto­ro per la gente in fuga da Bu­ner, raccontano che nei villag­gi di Pir Baba, Sultanwah e Wa­naba i talebani avrebbero usa­to la popolazione come scudo contro i bombardamenti. In quelli di Sultan Bass e Shelban­dai avrebbero risposto alle ri­volte popolari uccidendo i citta­dini più in vista. «La polizia è scappata in massa – protesta Sher Alì Khan, di Sultan Bass ”. E ora l’esercito arriva trop­po tardi» .