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 2009  maggio 24 Domenica calendario

«L’ALTRA ITALIA DEL MIRACOLO ECONOMICO» (+ 4

schede)-

Cinquant’anni fa l’articolo del Daily Mail che battezzò un’era Pil in crescita di oltre il 6%, tre milioni di frigoriferi prodotti

«Crescono più le industrie che gli uomini»: così il Corriere della Sera titola un articolo sulla «crisi di mano d’opera». Un’altra era, un’altra Italia: a Londra il quotidiano Daily Mail de­finisce «l’efficienza e la prosperità del sistema produttivo italiano un miracolo economico». il 25 mag­gio 1959, cinquant’anni fa. Da lì al 1963 l’economia del nostro Paese crescerà a tassi mai visti. Il Pil s’im­penna del 6,2%. E gli italiani? Se ne accorgono? Festeggiano? «L’espres­sione ’miracolo’ non entra nell’uso comune, diversamente dalla parola boom che invece prende piede» dice al Corriere Silvio Lanaro, che inse­gna all’università di Padova e nella sua «Storia dell’Italia Repubblicana» ricorda quel riconoscimento un po’ perfido e stupito che ci fecero gli in­glesi dandoci dei «miracolati». Non fu l’unico (nel ”59 la lira si guadagna sul Financial Times la corona di mo­neta più stabile d’Europa).

«Gli inglesi non sbagliarono nella definizione, visto che quella crescita fu davvero imprevista e improvvi­sa », dice Lanaro, classe 1942. Ma gli italiani se ne accorsero? «Sì, e quella consapevolezza servì da fattore eufo­rizzante ». Cosa fa l’Italia quando è euforica? «In quegli anni aumenta vertiginosamente i consumi. Le fa­miglie si indebitano per comprare l’auto o la casa». un cambio signifi­cativo? « una modifica radicale del­lo stile di vita – dice Lanaro – In un certo senso siamo ancora figli no­stalgici di quel miracolo. Abbiamo passato crisi, recessioni, obnubila­menti. Ma non ci siamo mai dimenti­cati di quella stagione abbagliante, e fino a oggi abbiamo sempre cercato di riviverla». I miracoli non si sono ripetuti... «Dobbiamo mettere in conto l’insipienza della classe politi­ca ». Quella del boom era migliore? «No, era miserella, figlia delle elezio­ni del ”53 con governi Dc appoggiati da fascisti e monarchici. Ma quello sviluppo avvenne in virtù di una straordinaria congiuntura interna­zionale, l’età dell’oro del commer­cio... Fu un processo spontaneo. E sappiamo che i governi diventano cruciali in periodi di crisi».

Nell’Italia del boom ci fu «una straordinaria tensione morale, una forza corale di ricostruzione – dice Giampaolo Fabris, docente di socio­logia dei consumi all’Università San Raffaele – una fiducia e un’energia che forse non abbiamo più recupera­to ». Voglia di riuscire, di migliorare. Il primo totem della modernità, per un’Italia che aveva conosciuto la fa­me durante la guerra, «è il frigorife­ro: una porta magica che si apre, si illumina tutto e si vede il cibo. Poi verrà la televisione. Ma il primo fe­ticcio, il primo focolare è il frigo».

Li produce anche la Fiat. I giornali vanno a Pordenone a scoprire i se­greti del Rex con il tropic system che «funziona nei Paesi tropicali e da noi risparmia energia». Anche chi fabbrica lavatrici è attento ai consu­mi nel 1959 (come oggi): per la pub­blicità «la Candy automatic lava 4 chili di biancheria con soli 17 litri di acqua». Dietro ai nuovi «elettrodo­mestici bianchi» c’è da conquistare un nuovo modo di vedere la casa e le donne: «I prodotti che facilitava­no i compiti tradizionalmente fem­minili erano visti con sospetto» dice Fabris, che negli anni del miracolo fa ricerche di mercato per aziende co­me Candy e Bassetti: «Anche dietro la nuova biancheria per la casa c’è una piccola rivoluzione sulla vita ses­suale della coppia sposata. Nella so­cietà precedente le mogli dopo il pri­mo figlio si lasciavano andare, veni­vano trascurate. Negli anni del boom comincia quella liberazione che poi avrà lo snodo principale nel­la scoperta dei contraccettivi». Intan­to gli italiani, maschi e femmine, «scoprono» il burro che non si squaglia, il telefono, i primi «supermarkets », mentre i rotocalchi scrivono dal set della «Dolce vita» (il film di Fellini è girato nel 1959) e Walter Chiari si fa fotografare in auto per le vie di Roma con Anita Ekberg che rifiuta la corte di Maurizio Arena colpevole «di averle inviato due piante anziché rose rosse». Ma le passioni del boom sono altre e più concrete. «Lo scaldabagno in casa, per esempio, è una rivoluzione culturale. Come gli altri elettrodomestici». Come si fa a spiegare questa rivoluzione ai ragazzi di oggi senza farsi ridere addosso? «Con una bella doccia fredda. Scherzo. Spiegando loro che quel cambiamento è paragonabile solo all’avvento dei computer».

Siamo figli del boom o di quei «Capelloni » che già agli inizi degli anni ”60 contestavano la società dei consumi? In fondo anche Guido Piovene dalle pagine di Epoca nel maggio 1959 applaudiva «la società dovizio­sa » di Kenneth Galbraith e i suoi ana­temi contro «un sistema economico che produce troppe cose inutili». Fa­bris sospira: «Magari fossimo figli del boom. Sia io che Giuseppe De Ri­ta, presidente del Censis, cercando di vedere le conseguenze virtuose dell’ultima crisi abbiamo indicato nella tensione morale degli anni del miracolo quel colpo di reni necessa­rio a uscire dalla morta gora attuale. Ma credo sia solo un desiderio».
De Rita non ha dubbi. «Il primo popolo che sfanga la vita, per dirla con il Giulio Bollati dell’’Italiano’, ha fatto il miracolo 50 anni fa. E an­che oggi. Allora fu un miracolo socio­politico prima che economico. La re­sponsabilità dello sviluppo si spostò per la prima volta dal secondo popo­lo (le élite) al primo, le masse. Quel­lo stesso modello di Strapaese basa­to sulla famiglia, la piccola impresa, i mille lavori sommersi adesso per­mettono all’Italia di contenere la cri­si. E forse di risorgere».

L’architetto
Aulenti: quell’idea del lavoro che nobilita
«Il lavoro allora era importantissimo. Noi stu­denti al Politecnico dicevamo che lavoravamo, non che studiavamo architettura. Dopo la guerra c’era questa idea che oggi può far ridere: il lavoro nobilita», dice Gae Aulenti, 81 anni.
«Nel ”59 stavo a Casabella, la rivista diretta da Rogers. Fui presentata ad Adriano Olivetti, una strana intervista, in silenzio tutti e due: mi diedero da impaginare una pubblicazione tecnica diretta da Bram­billa, un matematico. Milano era vivissima e sicura: tornando a casa la notte non c’era la paura che c’è oggi. Andavamo al tea­tro Nuovo a difendere Luchino Viscon­ti, pronti a fare a pugni. Si disegnava e si lavorava fino alle 11, mezzanotte, poi andavamo a ballare al Santa Tecla. Giravo in Vespa, poi me l’hanno ruba­ta e ho preso la Topolino. I soldi non erano importanti come oggi. Il consumismo è stato un grande tarlo. «Vivevamo con poco. Per vestirci compravamo una cosa ogni due anni, io spendevo in libri. Ci fu il boom del design. Erano gli artigiani a cercare noi. La prima cosa che ho fatto, una poltro­na a dondolo, me la commissionò un signore di Agliana che lavorava il legno. Poi mi diedero lavori a Parigi, Buenos Aires. In edilizia negli anni del boom furono fatte cose anche orrende: era un’Italia che aveva fretta, l’Italia brava ad autodistruggersi».

L’imprenditore
Fumagalli: la Candy e i tacchini agli operai
«Papà a Monza aveva una bottega artigiana di utensi­leria. Quando mio fratello Enzo torna dal campo di prigionia in Arizona, porta con sé la ragazza e il dise­gno della lavatrice. Con l’altro fratello Niso ne costruia­mo una, la mamma la prova: funziona. In ditta qualcuno canta un motivetto americano: ’Oh Candy’. Nasce il mar­chio », racconta Peppino Fumagalli, 80 anni.
«Niso farà lo slogan: modelli intelligenti a prezzi one­sti. Dall’America Enzo ci trasmette anche l’idea del Thank­sgiving Day, che celebriamo ancora oggi che in famiglia siamo 45. Mio fratello ci mette del suo: di­ce che più tacchino si mangia, meglio an­dranno le cose. Tacchino per tutti, anche ai nostri operai. Poi a un certo punto, già negli anni 50, arriva il sindacato a dire che quello è paternalismo. Allora niente tacchi­no. I rapporti si induriscono. Quella rottu­ra la ricordo come una delle cose peggiori. Oggi sequestrano i manager in Francia? Allora le prende­vamo. Nel ”68 abbiamo trasferito di nascosto, nel giro di un weekend, gli uffici a Milano zona Precotto, lasciando la fabbrica a Brugherio e costruendo un muro divisorio. Uffici rimasti vuoti fino agli anni 90, quando siamo torna­ti. Per me il comunismo in Italia c’è ancora. Mio figlio Aldo, che ora guida la ditta, dice che il nostro mercato del lavoro adesso è tra i più flessibili d’Europa grazie alla sini­stra e alla rivoluzione degli anni 90. Sarà meglio che non lo dica al mio amico Berlusca».

Il fotografo
Berengo Gardin: fieri della tappezzeria
«Giravo l’Italia in auto, stavo via anche 40 giorni. Ho avuto anche la Ferrari berlinetta di secon­da mano. A Roma te le tiravano dietro: le acquistavano quelli dei ministeri, che poi trasferendosi non pagava­no più le rate. Dopo 3 mesi l’ho venduta perché ai se­mafori mi guardavano come un macellaio arricchito. Ho preso l’Mg e poi una Mini Cooper», dice Gianni Be­rengo Gardin, 78 anni.
«Tra gli scatti a cui sono più affezionato ci sono quel­li di picnic familiari nella Bergamasca, la domenica: te­nevano la 500 e la 600 a un metro da do­ve mangiavano, un po’ per la paura che gliele rubassero, un po’ perché voleva­no esibirle: che senso aveva parcheggia­re l’auto a 100 metri, se nessuno sapeva che era tua? Ho fotografato l’Italia in mo­vimento e quella che non si è mai mos­sa: l’immigrato alla dogana di Chiasso nel ”62, che poi incontrai 30 anni dopo a una mia mo­stra (’Non mi riconosce? Ho fatto l’emigrante in Ger­mania, Belgio e Francia, ora sono tornato al paese per la pensione’), le donne in nero nei paesi svuotati del Sud. «L’italiano comune non è cambiato, però oggi pre­tende tutto. Non esiste più la classe operaia. Allora era basilare per il Paese. Ricordo certe case operaie a Tori­no, con le prime tappezzerie alle pareti mostrate con orgoglio. E la buona società di Roma, con i rari servito­ri di colore esibiti come segno di superiore agiatezza».

L’«impiegato»
Villaggio: la nascita dei fannulloni
«Il miracolo ha riguardato una fetta modesta del Paese. Poche città del Nord. Dal Sud la gente scap­pava, mentre la malavita diventava impresa. Sì certo, uscivamo dalla guerra e ci siamo ritrovati con le utilita­rie, le lavatrici. Ma l’Inghilterra, dove ero andato a im­parare l’inglese facendo il cameriere, era molto più avanti», dice Paolo Villaggio, 76 anni. «Tornando in Ita­lia mi sono comprato anch’io la 600, a rate. Ma il boom non me lo sono goduto. Ho fatto l’impiegato nella me­ga- azienda parastatale. Lavoravo a Genova alla Cosi­der, consorella dell’Italsider. Ho vissuto l’epopea fantozziana. Ma quale produtti­vità. Vigeva il campionato del fancazzi­smo. Alla mensa c’era chi si vantava: ’Io sono 15 anni che non tocco una prati­ca’. Non ho mai conosciuto un animale così felice di fregare la ditta come l’im­piegato parastatale. Io ero un esemplare magnifico. Capo ufficio servizi, distribuivo penne e ma­tite. Al pomeriggio andavo su in archivio dove una cin­quantina di colleghi, alcuni in pigiama, dormivano su coltri di giornali. Li scavalcavo, uscivo sul cornicione, bussavo alla finestra della fabbrica accanto dove 50 ra­gazze cucivano bandiere e uscivo in strada. Lì mi aspet­tava la Lambretta e andavo al mare, Bagni Lido. Il mini­stro Brunetta è intelligente, ma non riuscirà a fregarli: gli impiegati delle mega-aziende sono invincibili».