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 2009  maggio 23 Sabato calendario

Giovanni Falcone (Palermo,18 maggio1939 - 23 maggio1992) è stato un magistrato italiano, tra i padri della lotta alla mafia, ed è considerato un eroe italiano

Giovanni Falcone (Palermo,18 maggio1939 - 23 maggio1992) è stato un magistrato italiano, tra i padri della lotta alla mafia, ed è considerato un eroe italiano. Biografia Figlio di Arturo Falcone, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e di Luisa Bentivegna, aveva due sorelle maggiori, Anna e Maria. Giovanni Falcone studiò al liceo classico "Umberto" e successivamente, dopo una breve esperienza all’Accademia Navale di Livorno, si iscrisse a giurisprudenza all’Università degli studi di Palermo dove si laureò nel 1961, con una tesi sulla "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Gli inizi in Magistratura e gli anni del Pool Falcone vinse il concorso in Magistratura nel 1964 e per breve tempo fu pretore a Lentini e poi sostituto procuratore a Trapani per dodici anni. Qui, a poco a poco nacque in lui la passione per il diritto penale. Arrivò a Palermo e dopo l’omicidio del giudice Cesare Terranova cominciò a lavorare all’Ufficio istruzione, che sotto la successiva guida di Rocco Chinnici diviene un esempio innovativo di organizzazione giudiziaria. Chinnici chiamò al suo fianco anche Paolo Borsellino e Falcone, al quale affida, nel maggio 1980, le indagini contro Rosario Spatola: un lavoro che coinvolgeva anche criminali negli Stati Uniti e all’epoca osteggiato da alcuni altri magistrati. Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo le associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, per ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici ed un quadro complessivo del fenomeno, per evitare la serie di assoluzioni con cui si erano conclusi i precedenti processi contro la mafia. Sono anni tumultuosi che vedono la prepotente ascesa dei Corleonesi, i quali impongono il proprio feudo criminale insanguinando le strade a colpi di omicidi. Emblematici i titoli del quotidiano palermitano L’Ora, che arriverà a titolare le sue prime pagine enumerando le vittime della drammatica guerra di mafia. Tra queste vittime anche svariati e valorosi servitori dello Stato come Pio La Torre, principale artefice della legge Rognoni-La Torre (che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Infine lo stesso Chinnici, al quale succedette Antonino Caponnetto. Caponnetto si insedia concependo la creazione di un "pool" di pochi magistrati che, così come sperimentato contro il terrorismo, potessero occuparsi dei processi di mafia, esclusivamente e a tempo pieno, col vantaggio sia di favorire la condivisione delle informazioni tra tutti i componenti e minimizzare così i rischi personali, che per garantire in ogni momento una visione più ampia ed esaustiva possibile di tutte le componenti del fenomeno mafioso. Nello scegliere i suoi uomini, Caponnetto pensa subito a Falcone per l’esperienza ed il prestigio già da lui acquisiti, ed a Giuseppe Di Lello, pupillo di Chinnici. Lo stesso Falcone suggerì poi l’introduzione di Borsellino, mentre la scelta dell’ultimo membro ricadde sul giudice più anziano, Leonardo Guarnotta. La validità del nuovo sistema investigativo si dimostra da subito indiscutibile, e sarà fondamentale per ogni successiva indagine, negli anni a venire. Ma una vera e propria svolta epocale alla lotta alla mafia sarebbe stata impressa con l’arresto di Tommaso Buscetta, il quale, dopo una drammatica sequenza di eventi, decise di collaborare con la Giustizia. Il suo interrogatorio, iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro del Nucleo operativo della Criminalpol, si rivelerà determinante per la conoscenza non solo di determinati fatti, ma specialmente della struttura e delle chiavi di lettura dell’organizzazione definita Cosa nostra. Il Maxiprocesso di Palermo Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle brillanti indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così ad istruire il primo grande processo contro la mafia. Questa reagì bruciando il terreno attorno ai giudici: dopo l’omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell’estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si cominciò a temere per l’incolumità anche dei due magistrati, che furono indotti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell’Asinara (incredibilmente dovettero pagarsi le spese di soggiorno e consumo bevande), dove gettarono le basi dell’istruttoria. Sotto la scure della minaccia mafiosa, i magistrati lavorano con encomiabile dedizione, spesso senza sosta, tributando forti ed inevitabili restrizioni alle proprie vite personali. Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala (TP) e lascia il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell’istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l’integrazione di nuovi elementi per seguire l’accresciuta mole di lavoro. Entrarono così a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte. E’ in questa fase che va registrata una prima clamorosa polemica che scaturisce da un articolo dello scrittore Leonardo Sciascia, il quale su un articolo del Corriere della Sera del gennaio 1987 parla infelicemente di "professionisti dell’antimafia", cosa che verrà interpretata strumentalmente, e, sebbene chiarita da un successivo incontro tra Sciascia e Borsellino, anticiperà la prossima stagione dei veleni, tanto che parte dell’opinione pubblica inizia a criticare la figura dei magistrati e le loro stesse scorte. Ma il 16 novembre 1987 diventa una data storica e insieme un momento fondamentale per il Paese, che per la prima volta inchioda la mafia traducendola alla Giustizia. Il Maxiprocesso sentenzia 360 condanne per complessivi 2665 anni di carcere segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia. La fine del Pool Antimafia Se lo Stato aveva conseguito una vittoria memorabile, la partita era lungi da considerarsi conclusa. Inoltre, Caponnetto si apprestava a lasciare l’incarico per ragioni di salute, e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Falcone, ed Antonino Meli. Nel settembre 1987, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli. La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell’azione investigativa; Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l’allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari; esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto. Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. La mafia intanto non ha abbassato la guardia, ed uccide l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone. Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, ma Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, e, come premonizzato da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando una importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York. Il fallito attentato dell’Addaura e la vicenda del "corvo" Il 21 giugno 1989, Falcone divenne obiettivo di un attentato presso la sua villa al mare, comunemente detto attentato dell’Addaura e sul quale ancor oggi non è stata fatta piena luce. I sicari di Totò Riina e di altri mafiosi ritenuti mandanti, piazzarono un borsone con cinquantotto candelotti di tritolo in mezzo agli scogli, a pochi metri dalla villa del giudice, che stava per ospitare i colleghi Carla del Ponte e Claudio Lehmann. Il piano era probabilmente quello di assassinare il giudice allorché fosse sceso dalla villa sulla spiaggia per prendere il bagno, ma l’attentato fallì, probabilmente perché i killer non riuscirono a far esplodere l’ordigno a causa di un detonatore difettoso, dandosi quindi alla fuga e abbandonando il borsone. Falcone dichiarò a riguardo che a volere la sua morte si trattava probabilmente di qualcuno che intendeva bloccarne l’inchiesta sul riciclaggio in corso, parlando inoltre di "menti raffinatissime", e teorizzando la collusione tra soggetti occulti e criminalità organizzata, come avvenuto per l’omicidio Dalla Chiesa. Espressioni in cui molti lessero i servizi segreti deviati. Il giudice, in privato, si manifestò sospettando di Bruno Contrada, funzionario del Sisde che aveva costruito la sua carriera al fianco di Boris Giuliano. Contrada verrà poi arrestato e condannato in primo grado a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma al Palazzo di Giustizia di Palermo aveva preso corpo anche la nota vicenda del "corvo": una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), che diffamarono il giudice ed i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco, Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, ed importanti investigatori come De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva millantato soprattutto di avere "pilotato" il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i corleonesi. In un ambiente culturale come quello siciliano, in cui la ricostruzione a posteriori ha un ruolo fondamentale nella descrizione dei fatti, si arrivò a presentare i fatti descritti nelle missive come movente diretto della morte di Falcone ad opera dei corleonesi, i quali avrebbero organizzato il fallito attentato come vendetta per il rientro di Contorno (e non, si badi, per i decenni di inflessibile lotta senza quartiere che Falcone aveva scatenato contro di loro...). I contenuti delle missive, particolarmente ben dettagliati sulle presunte coperture del Contorno, furono alimentati ad arte sino a destare notevole inquietudine negli ambienti giudiziari, anche perchè nel mondo degli informatori di polizia le lettere furono attribuite ad un "corvo": nonostante il fatto che sul momento la stampa non lo spiegasse al grande pubblico, tra gli intenditori di "cose di cosa nostra" (e Falcone lo era) si sapeva bene che nel linguaggio mafioso l’appellativo designava i magistrati (dalla toga nera che indossano in udienza), per cui tutto cospirava per scuotere la certezza che il pool lavorasse in un brodo di coltura impermeabile ad invidie, concorrenze o gelosie professionali. Gli accertamenti per individuare gli effettivi responsabili delle missive non ebbero esito, in buona parte perché la raccolta delle impronte digitali dei frequentatori del palazzo di Giustizia - compiuta con un artificio dal magistrato inquirente - non fu utilizzabile processualmente, oltre a lasciare ampi margini sulla sua validità probatoria (sia il bicchiere di carta cui cui erano prese le impronte, sia l’anonimo con cui erano confrontate, erano alquanto deteriorati): l’unico indagato, il giudice Alberto Di Pisa, verrà poi assolto in Appello per non aver commesso il fatto. Una settimana dopo il fallito attentato, il C.S.M. decise la nomina di Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. La stagione dei veleni Nell’agosto 1989 iniziò a collaborare coi magistrati anche il mafioso Giuseppe Pellegriti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, e rivelando al pubblico ministero Libero Mancuso di essere venuto a conoscenza, tramite il boss Nitto Santapaola, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informò subito Falcone, che interrogò il pentito a sua volta, e, dopo due mesi di indagini, lo incrimina insieme ad Angelo Izzo, spiccando nei loro confronti due mandati di cattura per calunnia (poi annullati dal Tribunale della libertà in quanto essi erano già in carcere). Pellegriti, dopo l’incriminazione, ritrattò, attribuendo a Izzo di essere l’ispiratore delle accuse. Lima e la corrente di Giulio Andreotti, erano spregiati dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, e tutto il movimento antimafia, e l’incriminazione di Pellegriti venne vista come una sorta di cambiamento di rotta del giudice dopo il fallito attentato, tanto che ricevette nuove e dure critiche al suo operato da parte di esponenti come Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e in maniera minore anche da Nando Dalla Chiesa, figlio del compianto generale. Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione Antimafia, scriverà poi, in riferimento al fallito attentato all’Addaura contro Falcone: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità». Nel gennaio ’90, Falcone coordina un’altra importante inchiesta che porta all’arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all’omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello") ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero. L’ultima battaglia In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l’azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da parte del PCI/PDS, di Leoluca Orlando e di parte della stampa. Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia. Mentre si discuteva di quest’ultima presso la Camera dei Deputati, un esponente del gruppo degli indipendenti di sinistra presentò un emendamento ad hoc per escludere Falcone da una simile carica, votato dal gruppo del PCI/PDS. Alcuni magistrati avversarono poi il progetto della Superprocura, denunciando il rischio che essa costituisse paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo». In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del Ros che analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne la nomina a Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell’intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere." La strage di Capaci Giovanni Falcone muore nella c.d. strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Stava tornando, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arriva a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendono tre autovetture del tipo Fiat Croma, gruppo di scorta sotto comando del capo della squadra mobile della Polizia di Stato, Arnaldo La Barbera. Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistema alla guida della vettura bianca, ed accanto prende posto la moglie Francesca Morvillo mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone, c’è alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Di Cillo, mentre nella vettura azzurra ci sono Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. Al gruppo è in testa la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisano della partenza i sicari che hanno sistemato l’esplosivo per la strage. I particolari sull’arrivo del giudice dovevano essere coperti dal più rigido riserbo; indicativo del clima di sospetto che si viveva nel Paese, è il fatto che nell’aereo di Stato - che lo riportava a Palermo - avevano avuto un passaggio diversi "grandi elettori" (deputati, senatori e delegati regionali) siciliani reduci dagli scrutinii di Montecitorio per l’elezione del Capo dello Stato, prolungatisi invano fino al sabato mattina. Uno di essi sarebbe stato addirittura inquisito per associazione a delinquere di stampo mafioso tre anni dopo; ma nessuna verità definitiva fu acquisita in sede processuale sull’identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita. Le auto lasciano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. La situazione appare tranquilla, tanto che non vengono attivate neppure le sirene. Su una strada parallela, una macchina si affianca agli spostamenti delle tre Croma blindate, per darne segnalazione ai killer in agguato sulle alture sovrastanti il litorale; sono gli ultimi secondi prima della strage. Otto minuti dopo, alle ore 17:58, presso il Km.5 della A29, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine viene azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina. Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo. Brusca, rimasto spiazzato, preme il pulsante in ritardo, sicché l’esplosione investe in pieno solo La Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, sin su un piano di alberi; i tre agenti di scorta muoiono sul colpo. La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, si schianta invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossano le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza. Costanza, fortunosamente, sopravvive, accusando poi solo delle lievi ferite. Così come rimangono feriti anche gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resiste, e si salvano miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio. La detonazione provoca un’esplosione immane ed una voragine enorme sulla strada. In un clima irreale e di iniziale disorientamento, altri automobilisti ed abitanti dalle villette vicine danno l’allarme alle autorità e prestano i primi soccorsi tra la strada sventrata ed una coltre di polveri. Venti minuti dopo circa, Giovanni Falcone viene trasportato sotto stretta scorta di un corteo di vetture e di un elicottero dell’Arma dei Carabinieri presso l’ospedale Civico di Palermo. Francesca Morvillo viene prima trasportata al pronto soccorso dell’ospedale Cervello, e poi trasferita anch’essa al Civico, presso il reparto di Neurochirurgia. Gli altri agenti e i civili coinvolti vengono anch’essi trasportati in ospedale mentre La Polizia Scientifica esegue i primi rilievi ed i Vigili del Fuoco espletano il triste compito di estrarre i cadaveri irriconoscibili di Schifani, Montinaro e Di Cillo. Intanto i media iniziano a diffondere la notizia di un attentato a Palermo, ed il nome del giudice Falcone trova via via conferma. L’Italia intera, sgomenta, trattiene il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sinché alle 19:05, un’ora e sette minuti dall’attentato, Giovanni Falcone muore dopo alcuni disperati tentativi di rianimazione, a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne. Francesca Morvillo morirà anch’essa, poche ore dopo. Due giorni dopo, mentre a Roma viene eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, a Palermo si svolgono i funerali delle vittime ai quali partecipa l’intera città, assieme a colleghi e familiari e personalità come Giuseppe Ayala e Tano Grasso. I più alti rappresentanti del mondo politico, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, vengono duramente contestati dalla cittadinanza; e le immagini televisive delle parole e del pianto straziante della vedova Schifani susciteranno particolare emozione nell’opinione pubblica. Il giudice Ilda Boccassini urlerà la sua rabbia rivolgendosi ai colleghi nell’aula magna del Tribunale di Milano: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». All’esecrazione dell’assassinio, il 4 giugno si unisce anche il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione (la n. 308) intesa a rafforzare l’impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente. Intanto, Paolo Borsellino, intraprenderà la sua ultima lotta contro il tempo, che durerà appena altri cinquantotto giorni, indagando nel tentativo di dare giustizia all’amico Giovanni.