Bernardo Valli, la Repubblica 18/05/2009, 18 maggio 2009
La bomba, quella atomica, è sempre presente. Anche se non la nomini ci pensi. E questo vale anche per il tuo interlocutore, il quale si aspetta che a un certo punto la tirerai in ballo
La bomba, quella atomica, è sempre presente. Anche se non la nomini ci pensi. E questo vale anche per il tuo interlocutore, il quale si aspetta che a un certo punto la tirerai in ballo. E´ sottintesa. E´ un fantasma, una minaccia, un miraggio. Un´arma politica per chi la denuncia come per chi la nega ma lascia credere che sia possibile. Sotto il tendone di un ristorante, ai piedi del monte Alborz, i cui pendii innevati la sera mandano folate di vento gelido, dopo una giornata primaverile, un critico letterario e professore universitario mi dice: «Lei mi chiede se voglio l´arma nucleare? Certo che la voglio, perché dovrebbero averla Israele, il Pakistan, l´India e non noi, che abbiamo alle spalle millenni di civiltà? Ma non voglio che l´abbiano tra le mani quei matti che ci governano». Insomma il professore è favorevole ma non si fida dell´uso che potrebbero farne gli ayatollah al potere. E´ evidente: non li ama. Ma è un nazionalista o, più semplicemente, un iraniano orgoglioso. Quando a Sud di Teheran, nel quartiere popolare del Bazar, pongo la stessa domanda a un commerciante, con il quale ho avviato una conversazione col pretesto di voler comperare un tappetino, ricevo una risposta che sembra uscita dal cuore: «Ahmadinejad ha ragione a volerla, ma prima dovrebbe contenere l´inflazione che ci mangia i soldi e che per noi è quello che conta». Al livello di funzionari l´argomento più usato è che a israeliani e americani fa comodo demonizzare la Repubblica Islamica, presentandola come una imminente minaccia nucleare. Nella realtà, il presidente Ahmadinejad non ha mai detto di volere l´arma nucleare, ma i suoi discorsi provocatori hanno consentito tutte le ipotesi. Pare che il defunto ayatollah Khomeini, ai tempi della guerra con l´Iraq, negli anni Ottanta, abbia detto che il Paese doveva possederla per difendersi dai tanti nemici. Adesso Israele giura che l´Iran l´avrà entro il 2010, e i suoi esperti militari (come descrive con dovizia di particolari lo studio di Abdullah Toukan e Anthony Cordesman del Centro studi strategici e internazionali di Washington) si danno da fare per studiare come annientare in tempo i centri di ricerca nucleari iraniani, calcolando i rischi di tale azione. Azione giudicata dagli americani (dopo Bush) gravida di conseguenze non soltanto per la regione. E infatti il neo presidente degli Stati Uniti ha teso la mano ai dirigenti iraniani, invitandoli ad «aprire il pugno», ossia a dimostrare migliori intenzioni di quelle che gli vengono attribuite. Il pugno potrebbe aprirsi, o dischiudersi, con le elezioni del 12 giugno. Elezioni su cui pesa il dilemma Obama. Dilemma che angoscia e divide più che mai, in questi giorni, i già litigiosi, cavillosi teologi che sovrastano e regolano la vita della Repubblica Islamica. I dibattiti, le disquisizioni sui principi, i paralleli con le filosofie occidentali, sono nella tradizione secolare sciita. Agli alti livelli è una religione dotta. Entro il 21 maggio il Consiglio dei Guardiani, composto da dodici giuristi (sei religiosi e sei laici), il cui compito è di vegliare sul rispetto della sharia, la legge islamica, dovrà decidere quali dei 433 uomini e delle 42 donne iscrittisi come candidati sono degni di partecipare alla gara presidenziale del 12 giugno. Il numeroso plotone sarà severamente sfoltito, e coloro che resteranno in lizza con la possibilità di avere un ruolo nella partita elettorale non saranno più di quattro. Tra questi Mahmud Ahmadinejad, che concorre per un secondo mandato e suscita accesi consensi e altrettante perplessità. Quindi domina la scena elettorale ponendo un interrogativo essenziale: è lui il più idoneo ad affrontare il nuovo atteggiamento della superpotenza, che, con l´avvento di Barack Obama, tende la mano, sia pur con tante riserve, alla Repubblica islamica? E tenendo conto che respinta quella mano tutto può accadere? Questo è il dilemma. E a porselo non sono soltanto i teologi, sui quali domina la Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, ma anche gli iraniani in generale. Comunque quelli, attorno al trenta per cento, che pensano valga la pena votare. Gli altri lo giudicano inutile, per indifferenza o perché rifiutano la Repubblica Islamica. E quindi potrebbero non andare alle urne. Con Bush junior al potere a Washington le provocazioni di Mahmud Ahmadinejad, animate da propositi antiamericani e antisemiti, potevano essere interpretate come una risposta all´aperta ostilità della superpotenza e del suo alleato israeliano. Potevano appagare per certi aspetti il forte orgoglio nazionale, anche quando era sul tappeto il problema nucleare. Il clima da "guerra fredda" serviva alla corrente più conservatrice del regime clericale al potere per giustificare il rigore all´interno e l´intransigenza nei confronti dei nemici esterni. La mano tesa di Obama rende molto più problematica la situazione. E conferisce al voto un´importanza eccezionale. Il risultato peserà su tutto il Medio Oriente. E conterà per l´Occidente. Benché dipenda in buona parte dalla volontà delle autorità religiose, che possono condizionarlo, l´esito è tutt´altro che scontato. Conserva una forte dose di suspense. Si può classificare la Repubblica islamica tra i regimi autoritari, se si considera il controllo sui media e il sistema educativo, e naturalmente la repressione fisica e psicologica contro coloro che non rispettano le norme islamiche e gli ideali della rivoluzione. Ma a rendere incerto o impreciso il giudizio è l´assenza di un partito unico, il quale è stato abolito perché non c´è un accordo all´interno delle forze politiche fedeli a Khomeini per quel che riguarda il modello di società islamica da adottare. Da questo disaccordo, che permane, dipende una dialettica politica e una pratica definita da alcuni "democrazia sorvegliata". O "limitata", come si dice a Teheran. Queste definizioni possono apparire generose, e in effetti lo sono. Il fatto di non sapere con esattezza quel che vuol essere, trent´anni dopo la rivoluzione, e di conoscere uno scontro politico-teologico sulla questione, rende tuttavia il regime disponibile a un dibattito impensabile in tanti altri paesi nella regione. Si pensi all´Arabia Saudita. L´elezione non va scambiata, ben inteso, con un referendum sul rifiuto o l´accettazione della mano tesa di Obama. O addirittura dell´arma nucleare di cui neppure si è parlato e si parla, anche se è nei cervelli. La questione dell´apertura all´America di Obama, con tutte le sue conseguenze, non viene affrontata, resta nel sottofondo. E´ sottintesa come tanti altri problemi nella Repubblica Islamica. E´ implicita nel confronto tra conservatori e riformatori, ben lontani dal rappresentare due schieramenti compatti. In un sistema dominato da un cocktail in cui sono mischiate politica e teologia, la prima, ossia la politica, quindi il compromesso, finisce col prevalere. Ad esempio il principale antagonista di Ahmedinajad è un esponente dall´ala riformista islamica, il quale conferma la sua appartenenza a quella corrente ma precisa al tempo stesso di essere uno «che insiste sui principi». Vale a dire che non è del tutto contrario al «fronte dei principi» che è quello dei conservatori. Insomma Mir-Hussein Moussavi, questo il nome dell´avversario di Ahmedinejad, cerca di stare a cavallo dei due schieramenti. Non vuole incorrere in scomuniche e si dichiara un riformatore fedele ai principi della Repubblica Islamica. Entro questi limiti si può discutere e criticare. Molti, a Teheran, tra le persone che uno straniero incontra, si dichiarano in favore del colto Moussavi e si augurano che il rozzo Ahmadinejad esca di scena, non ritenendolo un personaggio «degno della tradizione iraniana». Ahmadinejad è un populista di tipo sudamericano, che avvolge i suoi discorsi con citazioni coraniche. Si presenta come un uomo semplice, che detesta il lusso, le raffinatezze dei ricchi, e che per questo non abita nei palazzi ufficiali, ma nella modesta abitazione di sempre. La sua giacca sgualcita è diventata un simbolo. Mi dice il funzionario di un ministero che un tempo lo avrebbe fatto aspettare almeno mezz´ora fuori dalla porta prima di riceverlo. Il clima elettorale scioglie le lingue. Moussavi viene presentato come l´esatto contrario. Il suo linguaggio è forbito, i suoi discorsi argomentati. E, quando ha governato, ha dimostrato di essere un uomo di polso ed equilibrato, esperto anche in campo economico. E´ stato primo ministro durante la guerra con l´Iraq (?81-´89), ma poi è scomparso volontariamente dalla scena, e in un Paese dove il settanta per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, i testimoni di quel lontano passato sono pochi. I più ignorano il nome e la figura di Moussavi. Con il suo linguaggio populista e (sia pur goffamente) ispirato, Ahmadinejad è invece quotidianamente presente sugli schermi della televisione. E se nelle popolazioni urbane educate suscita reazioni negative, o addirittura di rigetto («può guidare greggi di montoni non un Paese civile»); nelle campagne, tra i militari e tra i religiosi può raccogliere larghi consensi. In particolare se sollecitati o ordinati dalla Guida suprema, l´ayatollah Ali Khamenei, il quale non si è pronunciato, non ancora, ma del quale sono note le idee conservatrici. Inoltre Ahmadinejad, pasdaran della prima ora, ha l´appoggio delle milizie, alle quali ha elargito prebende non lesinando ai loro capi incarichi molto redditizi. Il discorso di Moussavi può apparire moderato, ma urta la sensibilità dei super conservatori. Promette un Iran «sviluppato, libero, giusto, basato sullo stato di diritto». Chiede la competenza e la trasparenza dell´amministrazione (la corruzione è cresciuta negli anni di Ahmadinejad), il rispetto della Costituzione, la libertà di stampa. Si dichiara in favore degli investimenti privati, promette di non trascurare l´esperienza dei ministri conservatori, chiede una politica estera indipendente e un adeguamento del paese alla globalizzazione. Per lui l´Iran dovrebbe infine entrare nell´Organizzazione mondiale del Commercio. Ossia «ritornare in società». Le parole di Moussavi sono senz´altro più gradite all´Occidente, ma sul problema nucleare e sui rapporti con gli Stati Uniti è tutt´altro che docile. Non può esserlo. Ha escluso con fermezza la sospensione dell´arricchimento dell´uranio, ha definito strategica «l´acquisizione della tecnologia per il nucleare pacifico, senza che questo diventi una minaccia per il mondo». La precisazione è comunque rassicurante. In quanto ai rapporti con gli Stati Uniti «aspetta gesti concreti da parte di Obama prima di giudicare quel che vale l´offerta di dialogo». E´ la posizione di Khamenei, dal quale spera di essere sostenuto. L´ex presidente riformista Mohammed Khatami, sconfitto da Ahmedinejad nel 2005 (dopo anni di governo durante i quali l´Iran si è modernizzato e liberalizzato), ha dato il suo appoggio a Moussavi. Gli ha lasciato il posto. Ha preferito non ripresentarsi, forse temendo che l´ostilità nei suoi confronti dimostrata nelle precedenti elezioni dal conservatore Khamenei potesse impedire ancora una volta un successo dei riformisti. Khatami era a fianco di Moussavi durante il comizio nel Centro congressi di Teheran, la settimana scorsa. La sala era stracolma di giovani che scandivano «libertà». Moussavi ha dato a questa invocazione un significato pratico. Ha detto che una famiglia o un individuo non può aspirare alla libertà se non ha un lavoro. E ha attaccato la politica economica del governo che ha trascinato il paese in una crisi disastrosa. L´inflazione supera il 30 per cento e l´industria del petrolio non ha i mezzi (anche a causa delle sanzioni) di rinnovare gli impianti. Ha inoltre rimproverato ad Ahmadinejad di avere creato pericolose tensioni nazionali e internazionali. Lui si impegna a spegnerle. Ma non è detto che il superpotere, quello della Guida suprema, il quale non dipende dalle elezioni, abbia lo stesso obiettivo.