varie, 23 maggio 2009
Cosa succederà ai prezzi quando arriverà la ripresa? Niente di speciale, se tutto andrà secondo i programmi delle banche centrali: l’inflazione risalirà ma si fermerà attorno a livelli accettabili per Europa e Stati Uniti, cioè più o meno il 2%
Cosa succederà ai prezzi quando arriverà la ripresa? Niente di speciale, se tutto andrà secondo i programmi delle banche centrali: l’inflazione risalirà ma si fermerà attorno a livelli accettabili per Europa e Stati Uniti, cioè più o meno il 2%. Ma le cose potrebbero anche andare diversamente. Alcuni economisti lo dicono da mesi: governi e banche centrali stanno costruendo le basi per un’impennata inflazionistica. una dinamica elementare quella che sta alla base dell’inflazione: i prezzi salgono quando la domanda supera l’offerta. Tutto ciò che modifica l’equilibrio tra questi due fattori porta con sé rischi inflazionisti o deflazionistici. La politica monetaria altera l’equilibrio perché influenza la domanda. Portano facilmente inflazione: una politica monetaria troppo accomodante, l’eccesso di denaro circolante, un pesante deficit statale, una politica fiscale esageratamente leggera. Tranne quest’ultima, tutte queste condizioni si stanno verificando in queste settimane. I tassi di sconto delle banche centrali sono bassissimi. Quando è scoppiata la crisi (era l’agosto del 2007) le tre principali banche centrali tenevano i tassi relativamente alti: al 5,25% la Federal Reserve americana, al 5% la Banca centrale europea, al 5,5% la Banca d’Inghilterra. Per dare ossigeno a un sistema finanziario collassato tutti gli istituti centrali hanno tagliato ripetutamente il costo del denaro. Oggi la Bce ha tassi all’1%, la Fed ha scelto di tenerli in una forchetta variabile compresa tra lo 0 e lo 0,25%, la Banca d’Inghilterra è scesa allo 0,5%. La liquidità in circolazione è aumentata parecchio. Sempre per dare ossigeno al sistema. Per misurare la liquidità circolante si sceglie abitualmente di utilizzare l’indicatore della massa monetaria più esteso, denominato M3. La Bce segna per aprile un aumento annuo della massa M3 del 5,6%. La Fed ha smesso da tre anni di diffondere la sua cifra sulla M3, ritenendola poco indicativa. La banca centrale americana comunica però l’andamento di aggregati monetari più ristretti: M1 e M2. Il primo rappresenta praticamente il denaro fisicamente circolante, e segna un aumento annuo del 15,9%, il secondo comprende anche i depositi bancari, e l’incremento è dell’8,5%. I deficit pubblici sono enormi. Quello che preoccupa di più è il disavanzo americano: 1.800 miliardi di dollari quest’anno, il 12,9% del Pil. La Fed conta di vederlo scendere all’8,5% del Pil nel 2010 e al 6% nel 2011. Va anche peggio in Inghilterra, dove il saldo tra entrate e uscite statali è negativo per una somma pari al 13,8% del Pil quest’anno, mentre in Spagna arriva al 10%. In generale è un brutto anno per i conti pubblici. In Europa la Bce prevede deficit medi al 9% dei Pil. I parametri di stabilità chiedono ai paesi della zona euro di non superare un passivo del 3%. Tra quest’anno e il prossimo ci riusciranno solo 6 governi su 16. L’Italia ci va vicino: dovrebbe riuscire a rimanere sotto il 5%. Effetti sui debiti pubblici dei deficit: la Gran Bretagna raggiungerà già quest’anno un rapporto debito pubblico-Pil del 72%, dal 52% del 2008, e fra qualche anno potrebbe arrivare al 100%. Standard & Poor’s minaccia di tagliarle il rating sui conti, oggi al livello massimo (AAA). Negli Usa il rapporto debito-Pil è salito in due anni dal 65 all’81%. Si teme che anche per loro arriverà presto il monito di S&P’s. Negli Usa durante due anni di crisi le riserve in eccesso del sistema bancario sono esplose da meno di 3 miliardi di dollari di un anno fa agli attuali 700 miliardi di dollari. Questa immissione di denaro consiste in depositi bancari garantiti dal governo che i cittadini e le aziende stanno tenendo perché non si fidano di altre forme di investimento. Quando la situazione economica migliorerà, questi soldi rischiano di essere spesi, e quindi tramutarsi in leve che faranno schizzare l’inflazione. Quindi le basi ci sono tutte, eppure nelle stime ufficiali della possibile ondata inflattiva non c’è traccia. La Federal Reserve si aspetta un’inflazione americana sempre sotto l’1,7% fino al 2011 e sotto il 2% nel lungo periodo. La Banca centrale europea prevede per il Vecchio Continente un’inflazione all’1,2% quest’anno in graduale ascesa fino all’1,9% a distanza di cinque anni. E in questi mesi viviamo un’inflazione minima: 1% nell’Eurozona nel primo trimestre 2009, 1,6% nell’Unione Europea. Addirittura in deflazione gli Stati Uniti (-0,1%) e il Giappone (-0,2%). Ad aprile i prezzi al consumo negli Usa hanno segnato il loro maggiore calo annuo degli ultimi 50 anni. Però l’inflazione ”core”, quella che esclude cibo ed energia, è balzata in avanti di uno 0,3% mensile, la maggiore crescita dal giugno del 2008. Colpa, soprattutto, di un rincaro del 9,3% delle sigarette, che ha causato il 40% dell’incremento. Perché i governi federali stanno alzando le tasse sul tabacco per fare cassa. In Gran Bretagna gli analisti dicono che c’è una ”crescita sotterranea dei prezzi” mascherata dalla debolezza del mercato immobiliare, con la caduta dei costi degli interessi dei mutui. James Hughes, di Black Swan Capital dice di aspettarsi un’inflazione a doppia cifra nel 2012, ”sarà come negli anni Settanta”. I metodi per prevedere l’evoluzione dell’inflazione sono comunque piuttosto rozzi. Si basano su dei questionari, inviati a istituti finanziari ed esperti di economia. La Bce ha il suo ”Survey of professional forecasters” con 75 addetti a fare le previsioni sparsi per il Vecchio Continente. Le stime della Banca d’Italia, elaborate in collaborazione con Il Sole 24 Ore, si basano su interviste a 449 imprese con almeno 50 addetti. All’ultima indagine ha risposto solo il 45% degli intervistati. Uno studio del 2007 condotto da Claudio Borio e Andrew Filardo, della Banca dei regolamenti internazionali, dimostra che i risultati delle indagini sulle previsioni inflattive sono quasi sempre smentiti dai fatti. Difatti le banche centrali si stanno preparando per evitare quell’impennata del’inflazione che i loro bollettini mensili non prevedono. ”Abbiamo un piano per evitare che gli sforzi per risollevare l’economia non portino a un’inflazione più elevata” ha assicurato una settimana fa Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve. Il piano di Bernanke è semplice: la Fed non avrà fretta di vendere gli asset privati acquistati. Sono titoli politicamente difficili da piazzare perché legati ai mutui, ai prestiti studenteschi, ai finanziamenti di auto e alle carte di credito. E non è necessario che smetta di adottare strategie di politica monetaria quantitativa prima di alzare i tassi di interesse. Invece cercherà di drenare le riserve in eccesso sostituendole con altri strumenti, che le permettano di alzare i tassi di interesse mantenendo un bilancio pesante per un po’. Potrebbe utilizzare i ”reverse repurchase agreements”, accordi con cui una banca centrale prende in prestito soldi dal mercato per finanziare alcuni dei suoi titoli, così da riassorbire la riserva in eccesso del sistema. Non è detto però che la Fed sia davvero determinata a contenere l’inflazione. Lasciare crescere i prezzi potrebbe essere una strategia: sfruttare alti tassi di inflazione per svalutare l’ammontare del debito pubblico. Così come tenere i tassi di interesse a zero, ha segnalato l’economista Gregory Mankiw sul New York Times, può consentire alla Fed di ottenere tassi reali negativi: il costo del denaro è fermo, ma con l’inflazione i tassi reali – misurati in potere d’acquisto – possono diventare negativi. Tutte strategie temute da Cina e Giappone che, assieme, hanno comprato il 45% del debito pubblico statunitense. Le banche centrali possono creare inflazione agendo sulla domanda. I prezzi però crescono anche per altre strade. In particolare due: i costi della produzione e quelli delle materie prime. I prezzi alla produzione non fanno temere un’impennata di quelli al consumo. In Usa ad aprile hanno segnato un calo del 3,7% rispetto a un anno fa, la maggiore contrazione dagli anni ”50. In Europa il calo è stato del 3,1%. Merito, soprattutto, delle materie prime. Infatti i prezzi alla produzione dell’industria americana sono aumentati del 3,4% se si esclude il settore dell’energia, in Europa l’esclusione dei prezzi energetici riduce il calo all’1,7%. Si scrive energia, ma si legge petrolio. A garantire all’economia globale una crescita dei prezzi contenuta è stato più che altro il tracollo del valore del greggio, scivolato dai quasi 150 dollari al barile del luglio 2008 ai 35 scarsi del gennaio 2009. Il prezzo del petrolio era crollato perché la domanda si è bruscamente arrestata. Nel 2008 c’è stato il primo calo nella domanda mondiale di petrolio (-0,2%) degli ultimi venticinque anni. E anche per il 2009 il cartello Opec e l’associazione occidentale Aie si aspettano una riduzione del fabbisogno di oro nero a 83,4 milioni di barili al giorno. La riduzione del valore del greggio, ha calcolato Nobuo Tanaka, direttore dell’Aie, equivale a un pacchetto di stimolo da 1 miliardo di dollari per le economie sviluppate. Il prezzo del petrolio, però, sta risalendo: a febbraio ha riguadagnato il 7,4%, a marzo l’11%, ad aprile il 3%, a maggio già il 20%. Così il barile è tornato sopra i 60 dollari, livello che non si vedeva da otto mesi, il 70% in più rispetto al prezzo di gennaio. A trascinare il greggio al rialzo c’è stato l’efficace taglio record della produzione da parte del’Opec (4,2 milioni di barili giornalieri) e c’è tutt’ora l’attivismo della Cina, che starebbe facendo scorta di petrolio a basso costo. Gli analisti dubitano che il greggio possa presto tornare ai livelli visti lo scorso anno. Le aspettative dell’Unione Petrolifera sono per un prezzo medio 2009 sotto i 55 dollari al barile, e quindi una graduale ascesa fino a 80 dollari al barile nel 2015. Ma già si tratta di stime sul lungo termine. E sul lungo termine, diceva Keynes, saremo tutti morti. Nel frattempo gli investitori stanno facendo quello che viene definito ”inflative trade”: puntano i titoli che si difendono da una possibile impennata dei prezzi. I più aggressivi comprano azioni sui mercati emergenti e titoli di settori tipicamente ciclici, come quello minerario e quello della grande distribuzione. I prudenti comprano oro (passato da marzo a oggi da 900 a 940 dollari l’oncia) e obbligazioni agganciate all’inflazione.