Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  maggio 22 Venerdì calendario

CHIESA, L’ITALIANO CANDIDATO IN LETTONIA «IO IN CAMPO PER LA MINORAZNA RUSSA»


«Non ho chance ma è giusto farlo. Di Pietro? Con lui ho rotto perché ha subito una degenerazione»
«Budet revolucija! Budet Dzuljeto Kje­za! ». Un grido percuote le masse russe del­la Lettonia chiamandole alla battaglia. Ar­riva la rivoluzione, arriva Giulietto Chie­sa! Non c’è muro di Riga dove non cam­peggi un manifesto, non c’è strada di Dau­gavpils dove non sia steso uno striscione, non c’è contrada sul Baltico dove la mino­ranza non si passi un volantino di riscos­sa: russi, mandiamo a Strasburgo l’Uomo con i Baffi.

Perché, sia chiaro, ci sono baffi e baffi. Ci sono quelli sottili e affilati da figaro di D’Alema il cui vibrar malefico («In televi­sione tremavano per una specie di scon­cia allegria») spinse Berlusconi a scende­re in campo. Ci sono i baffi mefistofelici con pizzetto di La Russa. E ci sono i baffi a manubrio, baffi grossi all’ungherese, baf­fi affilati alla Salvator Dalì, baffi cascanti alla Pancho Villa, baffi a ferro di cavallo stile «Fu Manchu» e insomma baffi di ogni foggia. Ma i vecchi cuori rossi palpi­tano per un paio di baffi soli: quelli di Io­sif Džugašvili, il vecchio compagno Sta­lin. E il nostro Dzuljeto ha esattamente quelli che facevano brillare gli occhi ai co­munisti italiani ai tempi in cui nelle sezio­ni del Pci erano affissi manifesti da legge­re in apnea: «Stalin! Gigante del pensiero e dell’azione rivoluzionaria per la libera­zione della classe operaia e dei popoli».

Sia chiaro: Dzuljeto giura che con Sta­lin non è mai c’entrato un fico secco. Ne­anche in gioventù. Sbocciò alla vita pub­blica intorno ai vent’anni come membro dell’Unione goliardica Italiana, della qua­le sarebbe stato vice-presidente («il presi­dente era Valdo Spini») ai tempi in cui, fi­no alla vigilia del Sessantotto, l’inno più in voga era il «Gaudeamus igitur» e il «Fanfulla da Lodi». Nel 1970, dopo una ga­vetta ai vertici della Fgci, era già dirigente della Federazione di Genova del Pci, del quale sarebbe stato capogruppo nel Consi­glio Provinciale di Genova dal 1975 al 1979.

Sceso a Roma nell’estate del 1980 per fare il giornalista alla redazione esteri del­l’Unità («studiavo fisica, ma ho molla­to »), tre mesi dopo veniva già mandato da Alfredo Reichlin a fare il corrisponden­te da Mosca. «In tempo per vedermi la mia prima sfilata sulla Piazza Rossa. C’era ancora Leonid Breznev. Avrei fatto tempo a vedere Yuri Andropov, Konstantin Cer­nenko, Mikhail Gorbaciov...». Viveva allo­ra, grazie a un accordo bilaterale tra i par­titi, sovietico e italiano, in due stanze nel­la Casa dei Corrispondenti Comunisti in via Pravda: «Era una posizione privilegia­ta: non avevo il poliziotto al portone. An­che se avevo i microfoni in casa. Centina­ia di persone lavoravano per controllar­ci ».

Praticamente, ha scritto Filippo Facci sul Giornale, «era a libro paga dei sovieti­ci ». Falso, ribatte lui: «Ho già vinto due cause, su questo. Una a Mosca nel 1993 con un settimanale russo vicino a Eltsin: 15 mila rubli di risarcimento che girai alla Croce Rossa. Un’altra con Craxi, al quale feci causa per un miliardo. La sentenza lo condannò a pagarmi 50 milioni. Certo, quando fui mandato a Mosca, esattamen­te come i miei predecessori e tanti altri colleghi, venivo trattato come corrispon­dente di un ’giornale fratello’. Mi davano un contributo di 150 rubli, lo stipendio di un operaio, ai tempi in cui con 15 rubli avevi un dollaro. Pensa un po’ che prezzo­lato. Enrico Berlinguer del resto era stato chiaro: scrivi quello che ti pare, libera­mente. E mantenne la parola. Basta guar­dare le collezioni del giornale. Quando tornavo facevamo lunghe chiacchierate. O rompevamo i rapporti col Pcus, anche se erano sgradevoli, o lasciavamo le cose così continuando a lavorare come se non avessimo i microfoni in casa. Tutto qui».

Rimasto a Mosca venti anni, dieci per l’Unità e dieci per La Stampa (con un an­no in mezzo al Kennan Institute for Advanced Russian Studies, di Washin­gton), conosce la Russia come pochi. Gli amici, a sinistra, dicono che è un mostro di bravura. I critici, come il Foglio, gli rin­facciano di essersi sbagliato più volte a partire da Gorbaciov: «Pensava che avreb­be riformato il comunismo». Di più, ha scritto il giornale di Giuliano Ferrara, cre­sciuto a Mosca col papà corrispondente de l’Unità: Chiesa «è la stampa estera fat­ta persona, anche se con la data di trent’anni fa. E cioè con la data di quando il mondo era ancora diviso in buoni e cat­tivi dalla cortina di ferro – tanto che Giu­lietto sarebbe stato benissimo in Goodbye

Lenin ».

«Boh... Non so neanch’io come definir­mi, oggi. Forse sono rimasto un comuni­sta nel senso berlingueriano del termine. Certo non mi piace la destra. E fatico a ri­conoscermi nel partito socialista euro­peo ». L’ultima volta, alle europee 2004, si candidò nella lista-frullato «Di Pietro-Oc­chetto- Società Civile». Pochi mesi e ave­va già rotto con Tonino, accusato di voler «tenersi il malloppo»: «Ha subito una de­generazione. Oramai preferisce l’indecen­za ai comportamenti decenti. Avrei desi­derato che quei finanziamenti fossero adoperati per il partito, Italia dei Valori, invece lui se li tiene per sé e li gestisce in maniera assolutamente discutibile».

La passione per la Russia, nonostante sia diversa da quella di un tempo e di­sprezzi gli oligarchi che l’hanno in pugno, è però rimasta: «Anzi, in Russia sono per­fino più conosciuto che in Italia». Parla il russo con scioltezza. Collabora da anni con giornali come la Literaturnaja Gaze­ta.

Ha una rubrica fissa sulla rivista Kom­pania

degli imprendito­ri. Viene intervistato co­me esperto da Russia Today. Si vanta di ave­re bloccato «trenta mi­lioni di spettatori in poltrona» la sera in cui il primo canale mosco­vita mandò in onda il suo documentario Zero in cui racconta la «sua» ricostruzione dell’attac­co alle Torri Gemelle. Documentario descrit­to dai critici come esempio di complotti­smo insensato (sintesi: nell’attentato c’è lo zampino dei servizi americani) e da lui come «la più approfondita inchiesta mai svolta sull’11 settembre».

Fatto sta che a un certo punto Tatiana Zhanoka, l’unica eurodeputata lettone di lingua russa, che lo aveva conosciuto a Strasburgo come una specie di «russo ad honorem», gli ha chiesto: «Perché non ti candidi da noi?». Dzuljeto non ci ha pen­sato due volte. Ed eccolo lì, sui manifesti del partito «Per la difesa dei diritti umani in una Lettonia unita». Spiega: «Dopo l’in­dipendenza i nazionalisti lettoni hanno schiacciato la minoranza russa in manie­ra vergognosa: 373.421 russi della Letto­nia (cioè oltre un terzo della minoranza, che a sua volta è un terzo degli abitanti) non hanno alcun diritto. Neppure quello di votare. Basti dire che sul passaporto hanno scritto: ’Cittadino di uno stato ine­sistente’ ». Per la campagna elettorale, ha preso in affitto una casa a Riga e va su e giù tutte le settimane. Speranze di essere eletto? «Poche. Diciamo nessuna. Ma è una battaglia che andava fatta». Una cosa è certa: a guardare i manifesti in cirillico, con quei baffi più russi di qualunque al­tro baffo russo, ti domandi: ma sarà dav­vero di Acqui Terme?