Gian Antonio Stella, Corriere della sera 22/5/2009, 22 maggio 2009
CHIESA, L’ITALIANO CANDIDATO IN LETTONIA «IO IN CAMPO PER LA MINORAZNA RUSSA»
«Non ho chance ma è giusto farlo. Di Pietro? Con lui ho rotto perché ha subito una degenerazione»
«Budet revolucija! Budet Dzuljeto Kjeza! ». Un grido percuote le masse russe della Lettonia chiamandole alla battaglia. Arriva la rivoluzione, arriva Giulietto Chiesa! Non c’è muro di Riga dove non campeggi un manifesto, non c’è strada di Daugavpils dove non sia steso uno striscione, non c’è contrada sul Baltico dove la minoranza non si passi un volantino di riscossa: russi, mandiamo a Strasburgo l’Uomo con i Baffi.
Perché, sia chiaro, ci sono baffi e baffi. Ci sono quelli sottili e affilati da figaro di D’Alema il cui vibrar malefico («In televisione tremavano per una specie di sconcia allegria») spinse Berlusconi a scendere in campo. Ci sono i baffi mefistofelici con pizzetto di La Russa. E ci sono i baffi a manubrio, baffi grossi all’ungherese, baffi affilati alla Salvator Dalì, baffi cascanti alla Pancho Villa, baffi a ferro di cavallo stile «Fu Manchu» e insomma baffi di ogni foggia. Ma i vecchi cuori rossi palpitano per un paio di baffi soli: quelli di Iosif Džugašvili, il vecchio compagno Stalin. E il nostro Dzuljeto ha esattamente quelli che facevano brillare gli occhi ai comunisti italiani ai tempi in cui nelle sezioni del Pci erano affissi manifesti da leggere in apnea: «Stalin! Gigante del pensiero e dell’azione rivoluzionaria per la liberazione della classe operaia e dei popoli».
Sia chiaro: Dzuljeto giura che con Stalin non è mai c’entrato un fico secco. Neanche in gioventù. Sbocciò alla vita pubblica intorno ai vent’anni come membro dell’Unione goliardica Italiana, della quale sarebbe stato vice-presidente («il presidente era Valdo Spini») ai tempi in cui, fino alla vigilia del Sessantotto, l’inno più in voga era il «Gaudeamus igitur» e il «Fanfulla da Lodi». Nel 1970, dopo una gavetta ai vertici della Fgci, era già dirigente della Federazione di Genova del Pci, del quale sarebbe stato capogruppo nel Consiglio Provinciale di Genova dal 1975 al 1979.
Sceso a Roma nell’estate del 1980 per fare il giornalista alla redazione esteri dell’Unità («studiavo fisica, ma ho mollato »), tre mesi dopo veniva già mandato da Alfredo Reichlin a fare il corrispondente da Mosca. «In tempo per vedermi la mia prima sfilata sulla Piazza Rossa. C’era ancora Leonid Breznev. Avrei fatto tempo a vedere Yuri Andropov, Konstantin Cernenko, Mikhail Gorbaciov...». Viveva allora, grazie a un accordo bilaterale tra i partiti, sovietico e italiano, in due stanze nella Casa dei Corrispondenti Comunisti in via Pravda: «Era una posizione privilegiata: non avevo il poliziotto al portone. Anche se avevo i microfoni in casa. Centinaia di persone lavoravano per controllarci ».
Praticamente, ha scritto Filippo Facci sul Giornale, «era a libro paga dei sovietici ». Falso, ribatte lui: «Ho già vinto due cause, su questo. Una a Mosca nel 1993 con un settimanale russo vicino a Eltsin: 15 mila rubli di risarcimento che girai alla Croce Rossa. Un’altra con Craxi, al quale feci causa per un miliardo. La sentenza lo condannò a pagarmi 50 milioni. Certo, quando fui mandato a Mosca, esattamente come i miei predecessori e tanti altri colleghi, venivo trattato come corrispondente di un ’giornale fratello’. Mi davano un contributo di 150 rubli, lo stipendio di un operaio, ai tempi in cui con 15 rubli avevi un dollaro. Pensa un po’ che prezzolato. Enrico Berlinguer del resto era stato chiaro: scrivi quello che ti pare, liberamente. E mantenne la parola. Basta guardare le collezioni del giornale. Quando tornavo facevamo lunghe chiacchierate. O rompevamo i rapporti col Pcus, anche se erano sgradevoli, o lasciavamo le cose così continuando a lavorare come se non avessimo i microfoni in casa. Tutto qui».
Rimasto a Mosca venti anni, dieci per l’Unità e dieci per La Stampa (con un anno in mezzo al Kennan Institute for Advanced Russian Studies, di Washington), conosce la Russia come pochi. Gli amici, a sinistra, dicono che è un mostro di bravura. I critici, come il Foglio, gli rinfacciano di essersi sbagliato più volte a partire da Gorbaciov: «Pensava che avrebbe riformato il comunismo». Di più, ha scritto il giornale di Giuliano Ferrara, cresciuto a Mosca col papà corrispondente de l’Unità: Chiesa «è la stampa estera fatta persona, anche se con la data di trent’anni fa. E cioè con la data di quando il mondo era ancora diviso in buoni e cattivi dalla cortina di ferro – tanto che Giulietto sarebbe stato benissimo in Goodbye
Lenin ».
«Boh... Non so neanch’io come definirmi, oggi. Forse sono rimasto un comunista nel senso berlingueriano del termine. Certo non mi piace la destra. E fatico a riconoscermi nel partito socialista europeo ». L’ultima volta, alle europee 2004, si candidò nella lista-frullato «Di Pietro-Occhetto- Società Civile». Pochi mesi e aveva già rotto con Tonino, accusato di voler «tenersi il malloppo»: «Ha subito una degenerazione. Oramai preferisce l’indecenza ai comportamenti decenti. Avrei desiderato che quei finanziamenti fossero adoperati per il partito, Italia dei Valori, invece lui se li tiene per sé e li gestisce in maniera assolutamente discutibile».
La passione per la Russia, nonostante sia diversa da quella di un tempo e disprezzi gli oligarchi che l’hanno in pugno, è però rimasta: «Anzi, in Russia sono perfino più conosciuto che in Italia». Parla il russo con scioltezza. Collabora da anni con giornali come la Literaturnaja Gazeta.
Ha una rubrica fissa sulla rivista Kompania
degli imprenditori. Viene intervistato come esperto da Russia Today. Si vanta di avere bloccato «trenta milioni di spettatori in poltrona» la sera in cui il primo canale moscovita mandò in onda il suo documentario Zero in cui racconta la «sua» ricostruzione dell’attacco alle Torri Gemelle. Documentario descritto dai critici come esempio di complottismo insensato (sintesi: nell’attentato c’è lo zampino dei servizi americani) e da lui come «la più approfondita inchiesta mai svolta sull’11 settembre».
Fatto sta che a un certo punto Tatiana Zhanoka, l’unica eurodeputata lettone di lingua russa, che lo aveva conosciuto a Strasburgo come una specie di «russo ad honorem», gli ha chiesto: «Perché non ti candidi da noi?». Dzuljeto non ci ha pensato due volte. Ed eccolo lì, sui manifesti del partito «Per la difesa dei diritti umani in una Lettonia unita». Spiega: «Dopo l’indipendenza i nazionalisti lettoni hanno schiacciato la minoranza russa in maniera vergognosa: 373.421 russi della Lettonia (cioè oltre un terzo della minoranza, che a sua volta è un terzo degli abitanti) non hanno alcun diritto. Neppure quello di votare. Basti dire che sul passaporto hanno scritto: ’Cittadino di uno stato inesistente’ ». Per la campagna elettorale, ha preso in affitto una casa a Riga e va su e giù tutte le settimane. Speranze di essere eletto? «Poche. Diciamo nessuna. Ma è una battaglia che andava fatta». Una cosa è certa: a guardare i manifesti in cirillico, con quei baffi più russi di qualunque altro baffo russo, ti domandi: ma sarà davvero di Acqui Terme?