Alessandra Farkas, Corriere della Sera 16/5/2009, 16 maggio 2009
«ANCH’IO SOTTO IL MICROSCOPIO DA TUTTA LA VITA»
«Anche il presidente Kennedy ha fatto parte dello studio. Ma lui aveva quattro anni più di me e non ne abbiamo mai discusso insieme anche se più tardi diventammo amici e io ho scritto diversi libri su di lui». Parla Ben Bradlee, il mitico ex-direttore del Washington Post durante lo scandalo Watergate, considerato, insieme a JFK, il soggetto più famoso del Grant Study. Perché ha accettato di partecipare? «A dire il vero non lo so neppure io. Nessuno ci pagò mai un centesimo per partecipare a quello studio che occupò un sacco del nostro tempo, in un periodo in cui si studiava moltissimo e non si aveva un attimo per respirare. Alla fine però mi sono divertito moltissimo». In che senso? «Parlare con psichiatri e antropologi talentuosi come il geniale Vaillant è stata una sorta di terapia gratuita. Ci misuravano tutto, dai nasi alle sopracciglia, e di fronte a gente tanto colta ed interessante avevamo l’ illusione, rivelatasi fallace, che saremmo un giorno riusciti a scoprire chi diavolo fossimo. Però ritengo che il Grant Study presenti dei limiti insormontabili». A cosa si riferisce? «Al fatto che allora Harvard era un’ università esclusivamente per maschi molto ricchi. Il difetto dello studio è proprio questo: l’ aver escluso le donne, i poveri e le minoranze in generale. Esso non rappresenta, insomma, la vera società americana, ma le sue caste culturalmente e socialmente più privilegiate». Anche se all’ apparenza avevate tutto - intelligenza, ambizione, soldi e bellezza - molti dei partecipanti sono finiti alcolizzati o sono morti prematuramente. Come lo spiega? «Una delle conclusioni cui arriva Vaillant è che, in fin dei conti, non eravamo diversi da tutti gli altri. L’ elite americana, insomma, ha sofferto lo stesso numero di depressioni, crisi nervose e di alcolismo della popolazione normale, riportando identici successi ed insuccessi. In altre parole: eravamo normali come il resto del paese». Secondo lei è possibile a 20 anni predire il futuro e la felicità di un individuo? «Questo studio dimostra che non lo è. La vita è piena di incognite e casualità, a seconda di chi sposi, chi sono i tuoi vicini di casa e il tipo di lavoro che finisci per fare. Nessuno può pronosticare a 20 anni la piega che prenderà la propria vita». Cosa pensa delle conclusioni cui giunge lo studio? «Condivido completamente la tesi di Vaillant secondo cui l’ amore e l’ amicizia sono la chiave della felicità e della longevità. E infatti la mia vita è stata entrambe le cose. La mia famiglia era molto unita ed i miei genitori sono rimasti amici fino alla morte». Eppure lei è reduce da ben tre matrimoni. «Sì, ma ho avuto e continuo ad avere un rapporto meraviglioso con tutte le mie ex mogli. Ho 87 anni, mi sento bene, sano e felice». Se tornasse indietro lo rifarebbe? «Penso di si, anche se il costo è stato alto: hanno letteralmente invaso la mia privacy, intervistando le mie mogli, i miei figli ed amici. Lo studio è cominciato quando avevo 19 anni e non è ancora terminato. L’ anno scorso mi hanno chiesto di compilare l’ ennesimo formulario». ipotizzabile condurre una ricerca del genere oggi? «Lo ripeto: avrebbe senso soltanto includendo anche donne e minoranze, per avere uno spaccato del paese reale. Però penso che un’ indagine del genere oggi sarebbe complessa e troppo costosa».