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 2009  maggio 21 Giovedì calendario

FRANCESI, TORNATE DAL RE VOSTRO PADRE"


Gérard Lhérithier è un uomo d’affari e un collezionista discreto, sornione e fortunato. La sua società «Aristophil» specializzata nell’expertise, acquisto e vendita di manoscritti e lettere, cinquanta milioni di euro di capitale di affari, mette a segno un colpo dopo l’altro. Il penultimo, ad esempio, ha fatto bufera: il manoscritto del surrealismo vergato da Breton, conquistato da Sotheby’s con 3,6 milioni di euro. Ma se si va nel Museo che ha fondato in un delizioso palazzo del XVI secolo a due passi dalla Senna (e sono pochi gli avveduti che lo fanno, non più di diecimila l’anno più le scolaresche), si scoprono nelle teche, in fogli di inchiostri sbiaditi, ad esempio i calcoli originali della teoria della relatività di Einstein, i manoscritti di Napoleone, la grande letteratura francese fissata nel momento, dionisiaco e faticoso, della creazione.
Sarà perché è così fortunato e abile che si fanno circolare su di lui malizie, ad esempio che non si sa dove si finanzi, che la sua «Aristophil» è un po’ opaca. E a detestarlo sono soprattutto le istituzioni, Biblioteca nazionale di Francia in testa, innervosita da questa concorrenza privata. Forse perché quello di Lhérithier è uno dei pochi Musei che non hanno un euro di sovvenzioni statali e non le chiede. In Francia è così raro da risultare sospetto.
L’ultimo colpo lo ha messo a segno negli Stati Uniti (ma i particolari sono, appunto, avari: si sa solo che l’ha pagato «diversi milioni») presso un collezionista non precisato: il testamento politico di Luigi XVI, sparito anch’esso come il re che l’aveva redatto nel maglio insanguinato delle mutilazioni rivoluzionarie: sedici pagine che furono poi usate nel processo per inchiodare l’autore al patibolo. Da due secoli erano, seppur note agli storici nel contenuto, ridotte a voci, a vaghe indicazioni bibliografiche, mai concretamente ricomparse. Un mistero, insomma.
Adesso le abbiamo davanti, pagine che una volta di più ci costringono a brancolare nel labirinto minotaurico delle buone intenzioni di questo re sfortunato. La firma «Louis», senza numeri e senza più gigli d’oro, solo un irto svolazzo che possiamo leggere, ora che sappiamo il sanguinoso finale della Storia, non più come un segno di orgogliosa potenza ma come patetico grido di aiuto. Che ci restituiscono l’immortale malinconia di una tragedia che fu straziante, perché più grande del personaggio che la subì. Questo testamento è un tentativo di dominare quella Storia che l’anima tiepida e incombustibile di Luigi Capeto non riusciva più a afferrare: «Francesi - scrive il monarca - e soprattutto voi, parigini abitanti di una città che i miei antenati amavano chiamare la buona città di Parigi, tornate al vostro re, lui sarà sempre il vostro padre, il vostro migliore amico».
Eppure in quella frenetica notte del 20 giugno 1791 questo sovrano adiposo, linfatico, che aveva scritto nel diario «niente» il giorno in cui avevano atterrato la fosca Bastiglia, aveva ormai capito che quella non era più una banale rivolta, era una rivoluzione. Aveva ascoltato fino ad allora le insolenze del Parlamento, pacifico aveva assistito con gli occhi bulbosi allo scannamento dei suoi servitori e si era calzato in testa il goffo berretto frigio. Ma quella notte finalmente si agiva: nel cortile del palazzo si attaccavano i cavalli a una immensa carrozza che doveva portare la Monarchia, la sua famiglia, quanto restava, ed era povera cosa, di un dominio secolare a ricongiungersi con il passato.
Sì, via dalla Francia, via dalla plebaglia, da quei fanatici che si inchinavano al nuovo dio sanguinario della volontà generale. Dietro cui si intravedeva la grande Quaresima del nuovo dispotismo che avrebbe fatto sembrare povera cosa quello antico. Oltre frontiera c’era ancora il suo mondo: i re, i cortigiani, la società divisa in ordini obbedienti, le cacce e i giochi di corte. Ma Luigi non poteva andarsene così in silenzio, aveva esitato ad accettare quella fuga, sentiva che era la fine di una costruzione carica della polvere, della gloria e dei peccati di secoli. Quelle sedici pagine le aveva scritte giorno dopo giorno, con la fatica che leggiamo nello stile confuso, approssimativo, che svela i dubbi le limature le cancellazioni i rimorsi. E infatti sarebbe stata la sua ultima parola politica, da re: dopo quella notte sarebbe venuta Varennes, la vergogna della fuga, i giorni terribili del Tempio e della ghigliottina.
Chiamò l’intendente, mentre lo spingevano con una goffaggine da bestia cacciata verso la carrozza, travestito da borghese, e diede ordine di depositare quelle sedici pagine di «dichiarazione a tutti i francesi» nell’ufficio del presidente dell’Assemblea nazionale. Si chiamava Alexandre de Beauharnais, non sapeva di essere anche lui destinato al patibolo. E che sarebbe diventato famoso come primo marito di una creola sublime, Giuseppina, che incantò Napoleone. Nel documento il re ripete, patetico, il suo sogno di una Francia retta da una monarchia costituzionale forte e armoniosa, rivuole il diritto di veto che gli hanno sottratto. Era il regno che aveva sognato da giovane ma che non era riuscito a creare, riformatore troppo incerto dubbioso timido. Il più dannoso, in tempi in cui incombono le rivoluzioni e la storia reclama implacabile una svolta.