Leonetta Bentivoglio, la Repubblica 17/05/2009, 17 maggio 2009
Il volto di Marisa Berenson fa luce per davvero. A questa concreta conclusione si giunge dopo averla avuta davanti per un paio d´ore, mentre parla e ricorda senza fretta sorseggiando un tè nella hall di un albergo polacco, tra servizi di porcellana e camerieri di una gentilezza d´altri tempi
Il volto di Marisa Berenson fa luce per davvero. A questa concreta conclusione si giunge dopo averla avuta davanti per un paio d´ore, mentre parla e ricorda senza fretta sorseggiando un tè nella hall di un albergo polacco, tra servizi di porcellana e camerieri di una gentilezza d´altri tempi. Marisa ha un dono astrale, un candido fulgore nella pelle, una luminescenza omogenea che dà risalto agli occhi di un verde cangiante, ora smeraldo ora denso come un vetro di bottiglia. Non si è appannato lo charme degli anni d´oro, quelli di Barry Lindon, quando sembrava che il mondo intero fosse ai piedi della sua bellezza. Quel film fu la sua consacrazione («e un po´ anche la mia condanna, come se mi avesse impresso delle stigmate»), perché il geniale Stanley Kubrick, trasformandola nella contessa moglie del protagonista, riuscì a cogliere ogni sfumatura della sua femminilità esangue e raffinata. Filmò il suo sguardo malinconico tra i cuscini di sontuosi letti settecenteschi; riprese la sua nudità, conturbante benché purissima (o forse proprio per questo), in un´antica tinozza da bagno; seguì le sue avanzate fluttuanti tra le aiuole di onirici giardini inglesi, con abiti fantastici e iperboliche parrucche. «Durante la lavorazione, che a volte era un supplizio», racconta, «poteva capitarmi di non sopportare più i trucchi estenuanti, le vestizioni interminabili, le attese di ore per l´allestimento di un set. E quando percepiva la mia pena, Stanley mi consolava dicendo: pensa la luce alla fine del tunnel. Nessuno, in tutta la tua vita, ti filmerà altrettanto bella. Aveva ragione». Oggi che ha superato i sessant´anni (è nata nel 1947), in lei ovviamente qualcosa è cambiato. Ma è una patina che non ha offeso quell´indicibile riflesso di segreti spirituali. «In tanti scoprono la fede invecchiando. Per me non è così. Io ho sempre visto la vita come cammino all´interno di se stessi, e gli esseri umani come canali attraversati da un´energia trascendente. Anche quand´ero giovane avevo questa cosa dentro, persino da bambina. A sette anni mi piaceva chiudermi nella mia stanza e sprofondare nel mio desiderio di capire. E da ragazza ero inquieta, esistenzialista, piena di domande: perché sono qui, cosa faccio su questa terra, qual è la mia ragione di essere. Ho girato il mondo, frequentato gli ashram in India, esplorato i modi per cercare Dio. Buddismo, induismo, cattolicesimo. Finché ho capito che in tutte le religioni c´è la stessa verità, una forza divina che ci sta dentro e attorno, e tutti siamo un tramite di questo flusso da condividere con gli altri. Nella vita ho sofferto molto, e se non avessi avuto questa risorsa spirituale da tempo mi sarei rotta in mille pezzi. E invece sono qui, nel mio presente». Il «qui» è Wroclaw, dove la Berenson ha partecipato a un convegno sul lavoro del regista-attore Pippo Delbono, festeggiato dal Premio Europa per le Nuove Realtà Teatrali, ospitato quest´anno dalla città polacca di Grotowski. Marisa ammira la rabbia politica e la passione umanitaria del teatro di Delbono («artista vitale e genuino, che condivide le mie convinzioni spirituali»), del quale è diventata amica l´anno scorso sul set di Io sono l´amore di Luca Guadagnino, protagonista l´attrice premio Oscar Tilda Swinton: « un film molto ricco, ispirato a un´estetica viscontiana, che racconta la storia di una grande famiglia industriale lombarda attraversata da varie tragedie. Sarà presentato in settembre alla Mostra di Venezia. Pippo interpreta Tancredi, marito della Swinton, e io sono sua madre, dunque la suocera di Tilda. Quando mi ha vista per la prima volta era sconcertato: come posso essere tuo figlio se sembriamo coetanei? Poi mi hanno invecchiata di parecchi anni col trucco e una parrucca di capelli grigi, il che non mi è dispiaciuto». Il fatto è che all´incredibile bellezza che da sempre ha sospinto il suo destino Marisa non dà un valore fondamentale: «Non ne sono mai stata granché consapevole, l´ho sempre vista con sorpresa negli occhi degli altri». Quella beltà ha radici nobili e gloriose. Suo padre Robert Berenson era un americano di origini lituane ed ebraiche: «Uomo splendido e solare, amato da tutti, lavorò a lungo con Onassis come direttore della sua compagnia navale e divenne diplomatico negli Stati Uniti quand´era presidente Kennedy, che lo fece ministro per i paesi in via di sviluppo». Sua madre nacque come contessa Maria Luisa Yvonne Radha de Wendt de Kerlor, nota come Gogo Schiaparelli, un misto di sangue italiano, svizzero, francese e polacco. La nonna era la celebre disegnatrice di moda nonché rivale di Chanel Elsa Schiaparelli, «artista dal talento audace e travolgente, che in estate mi portava in vacanza a Venezia». Il nonno materno era il conte Wilhelm de Wendt de Kerlor, teosofista e medium, e Marisa è la bisnipote di Giovannni Schiaparelli, astronomo italiano che scoprì certi canali di Marte, mentre dal lato del padre spicca la parentela con il famoso critico d´arte Bernard Berenson. «I miei genitori erano sempre in viaggio, per questo fui messa in collegio da quando avevo cinque anni, in varie scuole d´Europa: Svizzera, Inghilterra, Firenze a Poggio Imperiale. Anche mia sorella Berinthia, detta Berry, che sarebbe divenuta una brava fotografa e la moglie di Anthony Perkins, da piccola studiò in collegio, però in paesi diversi, lontano da me, il che mi pesava molto. In casa si parlava francese, inglese, italiano e tedesco, e sono cresciuta assimilando tutte queste lingue insieme». Da ragazzina sogna il cinema («avevo la stanza coperta di foto di attrici: il mio modello era Audrey Hepburn, dolce ed elegante dentro e fuori, ma fantasticavo anche su Ava Gardner, Rita Hayworth, Marlene Dietrich, Katherine Hepburn»), però è la moda ad appropriarsene per prima, quand´è giovanissima: a New York Diana Vrealand, caporedattore di Vogue, la lancia alla grande, ne plasma l´allure da principessa, la fa trionfare sulle copertine delle migliori riviste e la introduce in un mondo «meraviglioso e folle, pieno di hippy, di libertari e di creativi come il fotografo David Bailey ed Andy Warhol, che fece il mio ritratto e girò dei film su di me». Poi per Marisa arriva il cinema, con un debutto straordinario in Morte a Venezia di Visconti: «Avevo conosciuto Helmut Berger alla prima newyorkese de I Dannati ed eravamo diventati amici, fu lui a presentarmi a Luchino. Andavo a trovarlo a Ischia e nella casa di via Salaria a Roma, e un giorno mi disse: sto preparando un film d´epoca e credo che tu abbia il fisico giusto, però non so se sai recitare, ho bisogno di un´attrice che comunichi emozioni. Tornai a New York e ricevevo spesso le sue lettere, in cui mi descriveva il personaggio. Finché mi mandò un telegramma imperioso: torna a Roma perché la settimana prossima si comincia a girare. Non c´era stato alcun provino. Il primo giorno girai una scena con Dirk Bogarde e cinquecento persone attorno, dovevo commuovermi e piangere, ero terrorizzata. Ma la sera Luchino mi disse esultante: parevi Sarah Bernhardt, sei fatta per la cinepresa, questa è la tua vocazione. Saremmo rimasti sempre amici, e quando vagheggiava il film su Proust aveva costruito un ruolo destinato a me». Seguono Cabaret con regia di Bob Fosse, dove Marisa è una tedesca che a Berlino prende lezioni d´inglese da Michael York, e soprattutto il capolavoro Barry Lindon: «Un giorno Kubrick, che non conoscevo, mi telefona annunciandomi che mi avrebbe mandato un romanzo, e che voleva la mia opinione sul personaggio femminile. Dopo non molto iniziammo a lavorare: quattro mesi di preparazione e un anno di riprese. Sul set non spiegava niente, ma non c´era bisogno. Quando impari a muoverti, vestirti, camminare, ballare e andare a cavallo in un certo modo, quando l´educazione a un´epoca è così profonda e precisa, finisci per identificarti nella parte come se ci fossi nata dentro». Dopo quel film la Berenson, che a inizio anni Settanta era legata al Barone David de Rothschild, si sposa per due volte, prima con l´industriale James Randall, e nel ?77 nasce la figlia Starlite Melody, poi con l´avvocato Aaron Richard Golub, da cui divorzia nell´87: «Amori difficili, tormentati, che mi hanno portato lontano dal cinema. E c´è stato anche il dolore di un brutto incidente d´auto, come se avessi dovuto pagare il prezzo delle cose belle che fino a quel momento avevo ricevuto dalla vita». Poi tornano il cinema e il teatro: un film diretta da Clint Eastwood, ruoli a Broadway e in California. E un gran lavoro su se stessa, soprattutto dopo l´ultimo, terribile trauma: la morte della sorella Berry, rimasta uccisa nell´attentato dell´11 settembre: «Era sul primo aereo che colpì le Torri. Solo la fede mi ha salvato dal soccombere». Oggi Marisa, che è attiva come artista di pace per l´Unesco, viaggia tra le sue case di New York, città in cui abita anche la sua amata figlia, «psicologa per bambini e social-worker», e di Parigi, dove ha ancora sua madre. una salutista ferrea: mangia solo biologico, non beve, non fuma, ignora il caffè. Crede negli ingredienti rigorosamente naturali e ha creato una linea di prodotti cosmetici, "Fabuleuse", che si basa su di essi. «Penso al mio corpo con amore perché è da qui che passano la salute della mente e dello spirito, tre entità inscindibili». Si rigenera con la danza, la ginnastica, tanto nuoto, ore di meditazione quotidiana. Coltiva la sua luce.