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 2009  maggio 21 Giovedì calendario

LA SFIDA GIUDICI LUMACA «RIDURRE I TEMPI DI UN TERZO»


Studio sul lavoro dei magistrati nei tribunali di Milano e Torino La soluzione? Una causa alla volta

Certo che le risorse manca­no, ovvio che l’arretrato za­vorra i giudici, vero che con­tano anche tipo e numero delle nuove cause che si abbattono sui Tribunali: ma i giudici, almeno quelli del civile in alcune materie come il diritto del lavoro, già solo con una diversa organizzazione po­trebbero ridurre i tempi delle cau­se civili fin del 30%. E questo a pari­tà delle attuali condizioni di impe­gno (cioè di numero di udienze), di risorse materiali, di arretrato di partenza, e di sopravvenuti carichi di lavoro simili per quantità e qua­lità.

Miracolo? No, sostengono gli economisti Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico. A patto che i giudici lavorino «in sequen­za », cioè su pochi processi contem­poraneamente e cercando di con­cluderli in poco tempo dopo l’udienza iniziale prima di aprirne di nuovi: l’osservazione di chi lavo­ra così, mostra che questi giudici riescono ad esaurire (rispetto ai giudici che lavorano invece «in pa­rallelo » su molti più processi con­temporaneamente) un maggior numero di casi per unità di tempo, fanno durare meno le cause, e quindi riducono l’arretrato.

Il trio di economisti dell’Europe­an University Institute, dell’Univer­sità di Bologna, e della New York University, sottopone questa con­clusione all’esito di uno studio sul­le Sezioni lavoro dei Tribunali di Milano (52.850 procedimenti asse­gnati a 31 giudici in servizio nel 2000-2005) e di Torino (11.111 ca­si a 14 giudici nel 2005): uffici non proprio nella media italiana, essen­do «isole felici» nel disastrato pa­norama nazionale, ma scelti come laboratori di un esperimento qua­si in vitro per la loro rara confron­tabilità statistica. La ricerca, che verrà presentata domani in un seminario sull’orga­nizzazione giudiziaria promosso, col patrocinio della Camera, da ma­gistrati e avvocati a Vicoforte (Cu­neo) sotto l’impulso del giudice Maria Eugenia Oggero, prende le mosse da una domanda accecante nelle statistiche: come mai i giudi­ci di Torino ricevono 261 casi a te­sta e li chiudono in 174 giorni di media, e invece i giudici di Milano incamerano parecchie cause di me­no (in media 169 a testa) ma impie­gano molto più tempo (324 gior­ni) a definirli?

E non basta. Enormi differenze di produttività si misurano persi­no tra giudici del medesimo uffi­cio. A Milano il giudice Lento (cioè il più lento) ha ricevuto in media 122 nuovi casi a trimestre e li ha esauriti mediamente in 438 giorni, mentre il giudice Veloce (il più ve­loce), pur avendo ricevuto media­mente 20 casi in più in ogni trime­stre, è riuscito ad esaurire i suoi processi in soli 189 giorni: perché? E come mai a Torino il giudice Ve­loce esaurisce una causa in 73 gior­ni contro i 230 giorni impiegati dal giudice Lento?

L’osservazione centrale nello studio degli economisti è che il giudice Lento, quello i cui processi milanesi durano 438 giorni, tiene attive (cioè aperte sul suo tavolo) mediamente 337 cause alle quali ha già dedicato energie almeno per la prima udienza. Invece il giu­dice Veloce, i cui processi durano solo 189 giorni, tiene contempora­neamente attive soltanto 135 cau­se in media.

Per Ichino, è il segno che «i giu­dici i cui processi durano meno so­no anche quelli che tengono meno casi attivi»: sono cioè come quei «cuochi che tengono meno pento­le contemporaneamente sul fuo­co », e che nonostante questo, anzi proprio per questo, riescono così a «cucinare un numero maggiore di pasti per unità di tempo». Lo dimo­strano i numeri: il giudice Veloce, lavorando in sequenza, smaltisce 134 cause a trimestre contro i 76 casi esauriti in parallelo dal giudi­ce Lento, sebbene questi parados­salmente lavori di più, cioè faccia 5 udienze al giorno contro le 3,7 del collega Veloce.

Il recupero di produttività non sarebbe da poco. Il metodo «se­quenziale », sul campione esamina­to, farebbe risparmiare addirittura «3 mesi su 9», cioè il 30% di dura­ta, risultato altrimenti raggiungibi­le dal lavoro «in parallelo» soltan­to a prezzo di «90 udienze in più rispetto alle attuali 390 per trime­stre ».

Ma così non finirebbero per pa­gare il conto quei cittadini le cui cause fossero messe in coda alla se­quenza? No. «Le parti devono at­tendere relativamente di più per la prima udienza a Torino», dove si lavora in sequenza: «Ma il loro pro­cesso, una volta aperto, viene chiu­so molto piu in fretta consentendo una durata totale media inferiore e un numero di esauriti per trime­stre superiore, e questo anche se a Torino i casi sopravvenuti sono di più e le pendenze sono pari a Mila­no ».

Per il trio di economisti, c’è una logica in questi risultati. A e B, spiegano, sono due cause che per essere definite hanno entrambe bi­sogno di 100 giorni. Se il giudice lavora in parallelo, ossia nei giorni dispari fa il processo A e nei giorni pari fa il processo B, impiegherà 199 giorni per esaurire il caso A e 200 per il caso B: dunque la durata totale media dei due casi sarà di 199,5 giorni. Ma se lavora in modo sequenziale, ossia prima fa unica­mente il processo A e poi comincia il processo B ma solo dopo aver esaurito A, quest’ultimo durerà 100 giorni mentre il caso B durerà 200 giorni: dunque la durata me­dia sarà 150 giorni. Ichino rimarca che, lavorando sequenzialmente, il giudice consu­ma per esaurire il caso B (parcheg­giato in attesa nei primi 100 giorni e trattato solo nei successivi 100) lo stesso tempo che impieghereb­be lavorando in parallelo, ma per il caso A gli basta la metà del tem­po che sarebbe stato necessario nel lavoro in parallelo: quindi «con il metodo sequenziale nes­sun processo dura di più, ma tutti (tranne uno) durano di meno».

Restano, nel modello teorico, al­cune zeppe. La principale è che, nella realtà dei Tribunali, i giudici devono rispettare tutta una serie di tempi tecnici imposti dalla leg­ge, che impediscono un lavoro se­quenziale «puro» tra due trattazio­ni consecutive di una stessa causa. L’altro corposo dubbio è che i giudici più rapidi possano magari essere quelli più sciatti, e che la lo­ro velocità corrisponda a una mi­nor qualità delle sentenze. Per dira­darlo, gli economisti valorizzano il parametro della percentuale di ri­corsi in appello contro le sentenze, rimarcando come proprio i giudici «sequenziali» più veloci siano an­che quelli le cui sentenze vengono meno impugnate: ma in questo modo mostrano di considerare l’appello come indicatore di per sè di una sentenza imperfetta, men­tre spesso è soltanto una strategia della parte soccombente, a prescin­dere dalla fondatezza o meno della tesi non accolta dalla sentenza.