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 2009  maggio 21 Giovedì calendario

PECHINO PREME SULL’ORIENTE RUSSO

Viktor Ishajev, rappresentante del presidente Medvedev nel Territorio di Khabarovsk, scuote la testa: «I paesi confinanti - dice non sono come una moglie, non li puoi scegliere. Noi dobbiamo affrontare con pragmatismo la Cina per quello che è: un’opportunità, e una minaccia». A 8.500 chilometri da Mosca, in mezzo l’immensità della Siberia e sette fusi orari di differenza, Khabarovsk vive come una ridotta avanzata: il suo deserto dei tartari è oltre l’Amur, a soli 25 chilometri di distanza. Al confine dove il fiume cambia nome e diventa Drago nero, e dove improvvisamente la terra brulica di milioni di cinesi impazienti di colonizzare le distese disabitate del Nord, ricche di risorse naturali, di energia, di acqua. I russi sembrano non volerli vedere.
Non ci sono cinesi in giro a Khabarovsk, confinati al mercato oppure, immigrati illegali, costretti a nascondersi. Le statistiche ufficiali cercano di minimizzarne la presenza, riducendola a poche migliaia, ma c’è invece chi li conta a centinaia di migliaia, venuti in cerca di lavoro. Però è inutile chiedere: a Khabarovsk perfino i ristoranti cinesi si travestono, si danno un nome russo qualsiasi e assumono cameriere locali. Le automobili sono giapponesi, la televisione ospita canali coreani. La gente risponde con imbarazzo, e Viktor Lemekh, direttore generale della raffineria Nk Alians, si spazientisce quando gli viene chiesto qual è il suo mercato principale.
«Io produco - taglia corto - chi compra non è affar mio».
Eppure tutto viene da laggiù, dai vestiti agli alimentari, inondando i negozi di Khabarovsk per spingersi oltre, al resto della Russia. Mentre le esportazioni di Mosca restano ferme all’energia e alle materie prime, e alimentano l’economia cinese. Le vendite di armamenti stanno crollando: dopo aver studiato i modelli russi acquistati in passato, i cinesi hanno iniziato a produrseli da soli. Però, oltre confine, vorrebbero investire nell’edilizia, acquistare imprese, affittare le terre siberiane per coltivarle: di fronte a un partner commerciale tanto ingombrante, i russi hanno sempre più paura di perdere il controllo dell’economia.
Oggi e domani Khabarovsk ospita il vertice Russia-Unione Europea. Perché quaggiù? Qui il termine "europeo" viene usato spesso come sinonimo di "civilizzato", "normale". «Vogliamo dimostrare che la civilizzazione europea non si ferma a Mosca o a Pietroburgo», spiega Lemekh. In realtà, Mosca sta tentando disperatamente di arginare l’avanzata cinese creando sviluppo nel suo Lontano Oriente, costruendo ponti, ospedali e gasdotti, organizzando questo incontro con l’Europa oppure, nel 2012, il summit Apec dei Paesi del Pacifico. Per mostrarsi potenza anche asiatica, per promuovere infrastrutture che colmino la distanza con il cuore del paese. Per fermare il declino dell’industria manifatturiera, e il calo della popolazione che dal 1991 a oggi, dopo il crollo dell’Urss, nell’Estremo Oriente russo ha raggiunto il 25 per cento. un piano che ora deve affrontare anche la crisi economica. Trecento chilometri più a nord di Khabarovsk c’è Komsomolsk-naAmur,fondata dai pionieri, da sempre terra di foreste e di impianti strategici: quanto più importanti per il paese, tanto più tenuti lontani dal centro, al sicuro. Poco oltre, dopo Nikolajevsk, anche le strade finiscono e Serghej Khokhlov, direttore generale di Amurmetall, si torce le mani: «Chi perde il lavoro da noi, che alternative ha? Non c’è alcun posto dove andare, che mercato creiamo, se qualunque prodotto è destinato a soccombere di fronte alla concorrenza della Cina?».
Fuori dall’ufficio, lo aspettano tre medici: le preoccupazioni stanno sfinendo il capo dell’unico impianto siderurgico dell’Estremo Oriente russo. «Dovremo mandare via per un po’ 1.600 persone, il 25% dello staff - ammette Khokhlov - ma chi vuole mantenere il posto lo riavrà quando la crisi sarà passata. Ai sindacati abbiamo spiegato che è meglio conservare la fabbrica, in modo da poter promettere un ritorno. Hanno capito». Tra le fornaci che sprizzano scintille nel buio il capo della produzione di Amurmetall, Vladimir Limankin, mostra il processo di lavorazione dell’acciaio, tutto preso dal suo ruolo di cicerone tra le barre incandescenti. Smette di sorridere solo quando deve parlare degli stipendi: «Quanto prendiamo? So quanto guadagnavamo prima della crisi. Quel che pagheranno ora, nessuno lo sa». Vladimir Putin è appena passato di qui, ha promesso tre miliardi di rubli che non basteranno ad Amurmetall, perché prezzi e domanda continuano a calare. «La Cina ha smesso di comprare metalli», sospira Serghej Levkov, assistente del governatore: la bilancia commerciale penderà sempre più a sfavore dei russi. Quelli di Khabarovsk si consolano allo stadio del ghiaccio: almeno qui, i primi sono loro. «La Cina - si vantano gli allenatori - l’abbiamo sempre battuta. Saremo sempre più forti».