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 2009  maggio 21 Giovedì calendario

STATO, REGOLE E UGUAGLIANZA: SI RICOMINCIA

La crisi economica mondiale ci impartisce almeno tre lezioni. O meglio, ci fa riscoprire tre reperti del passato, tre memorie della nostra esperienza collettiva che avevamo relegato troppo in fretta nell’albo dei ricordi. Nell’ordine, si tratta di una creatura artificiale: lo Stato. Di uno strumento, una leva d’intervento: le regole. Di un valore da somministrare agli individui e ai popoli: l’eguaglianza.
Cominciamo dallo Stato. La sua data di nascita risale al 1648, quando fu stipulato il trattato di Westfalia; ma dopo quasi quattro secoli d’onorata carriera, negli ultimi tempi una malattia degenerativa lo aveva ridotto in fin di vita. Da un lato, troppa ingordigia: l’esile figura dello Stato liberale si è via via trasformata in Stato sociale e poi in Stato assistenziale, e questa bulimia ha sagomato un corpaccione fonte di sprechi e inefficienze. Da qui, dopo Margaret Thatcher e Ronald Reagan, una robusta cura dimagrante, che un po’ ovunque nel mondo ha imposto il digiuno forzato all’ammalato, anche a costo d’ucciderlo per inedia. Dall’altro lato l’avvento della globalizzazione, il crollo delle frontiere nazionali, il trasferimento dei poteri di governo a soggetti interstatuali o suprastatuali.
Fra i 100 maggiori organismi economici del nostro pianeta, 51 sono imprese, 49 sono Stati. Prima della crisi,il giro d’affari della General Motors superava il Pil della Turchia così come dell’Arabia Saudita. Esistevano ( esistono) circa 150mila multinazionali. E al contempo sulla scena giuridica mondiale agiscono oltre 2.000 organismi internazionali, un centinaio di tribunali, altrettanti organi di stampo giurisdizionale. Ma improvvisamente, quando il vento della recessione ha cominciato a soffiare sui cinque continenti, l’umanità è tornata ad affidarsi alle cure dello Stato. E lo Stato, anche in paesi ultraliberisti, ha nazionalizzato banche, ha fatto credito ai gruppi industriali, ha messo in moto politiche d’incentivazione e di redistribuzione. Un ritorno poderoso, e niente affatto effimero.
Secondo elemento:le regole.L’eclissi degli Stati ne aveva oscurato la forza prescrittiva, dato che le regole sono un po’ lo specchio nel quale si riflette l’autorità del pubblico potere. In quel vuoto di diritto aveva attecchito la pianta della deregulation, oaltrimenti aveva preso forma un arsenale di strumenti normativi più duttili e flessibili:
soft law, questo il suo nome di battesimo. Libri verdi o bianchi, linee guida, raccomandazioni, e nei rapporti interprivati regole paralegali, che trovano nel contratto il proprio archetipo. Dunque un diritto generato dai suoi stessi destinatari, all’insegna dell’autoregolazione,come accade per i codici deontologici. E inoltre un diritto decen-trato, parcellizzato, perennemente in movimento, che segue gli accadimenti anziché pianificarne in anticipo il decorso.
Nell’ambito economico la sua stella polare si chiama lex mercatoria, un corpo di principi e protocolli forgiato dagli operatori del mercato per le specifiche esigenze del commercio internazionale. Insomma l’economia globale, e insieme ad essa la finanza transnazionale, si era lasciata ormai alle spalle l’idea di Max Weber circa il ruolo del diritto rispetto al mondo degli affari. Lui pensava a un diritto monopolizzato dallo Stato, a un apparato normativo certo e prevedibile per consentire l’ordinato svolgimento dei mercati - tutto l’opposto della torre di Babele che ci siamo poi trovati a frequentare.
Ma la crisi segna la rivincita di Weber: perché non è fallito il mercato, è fallita la (non) regolamentazione del mercato, per usare le parole con cui Guido Tabellini ha aperto questo dibattito sul Sole 24 Ore. E così, nostro malgrado, abbiamo riscoperto l’esigenza e l’urgenza delle regole. Regole di ferro, altro che soft obligations, altro che leggi prive di sanzione, e perciò rimesse totalmente all’arbitrio di chi dovrebbe rispettarle.
Terzo elemento:l’eguaglianza.Sta di fatto che la tempesta economica si è abbattuta su un mondo sempre più divaricato, sempre più diviso fra un’élite di privilegiati e l’esercito dei disperati. La forbice fra paesi sviluppati e Terzo mondo (misurata in base al reddito pro capite) nel 1820 era di 3 a 1; in meno di due secoli è cresciuta in modo esponenziale. Ma questa frattura si riproduce pari pari anche all’interno delle società avanzate: i rapporti Onu attestano che le disparità di reddito sono ulteriormente lievitate del 12% dopo gli anni 80 del 900 (in Italia del 33%).
Da qui il prosciugamento della middle class, da qui il rischio che tutto l’Occidente finisca per imitare l’America Latina, con un popolo straccione che riempie le favelas e i super-ricchi chiusi a chiave nei loro quartieri blindati. un rischio per la sopravvivenza dei sistemi democratici, dato che senza classe media non c’è democrazia. Ma è anche un rischio per l’ordine sociale, per la sicurezza collettiva. Infineè un rischio per la crescita economica, e almeno in questo la lezione della crisi è perentoria: non è vero che i profitti a molti zeri di banchieri e manager generano ricchezza per l’intera società.
Poi, certo, l’eguaglianza assoluta - quella di cui ci parlò Platone- non è di questa Terra, e dopotutto non è neppure desiderabile. Per esaltare le qualità degli individui, per metterle al servizio dell’interesse collettivo, ci serve un’eguaglianza nei punti di partenza, non già all’arrivo. Oggi però sappiamo qual è il mandato che la crisi consegna all’autorità ritrovata degli Stati, nonché alle regole plasmate dagli Stati: una disuguaglianza ben temperata.