Claudio Marincola, Il Messaggero 16/05/2009, 16 maggio 2009
Franco che in pieno inverno vorrebbe indossare i pantaloni corti e in estate uscire con due giacche una sull’altra
Franco che in pieno inverno vorrebbe indossare i pantaloni corti e in estate uscire con due giacche una sull’altra. Lucia che si perde e si ritrova dentro la sua stanza da letto. Maria che non riconosce più i suoi figli. Michele che non ricorda più il nome di sua moglie. Disconoscimenti. Persone smarrite. Storie che hanno in comune uno stesso male: l’Alzheimer. Male bastardo. Agisce come un virus in un computer. Cancella le memorie, spezza i fili che sono dentro di noi. Giacomo, 89 anni, ieri mattina non c’è l’ha fatta più e in una palazzina a Roma ha ucciso a coltellate Flavia, sua moglie, 82, malata di Alzheimer. Il quartiere è l’Ardeatino, dove le panchine sono un bene raro e l’unico punto di incontro è un centro commerciale. I due anziani avevano la badante, lui ingegnere, lei psichiatra. Ma erano soli e comunque troppo piccoli contro quel male grande che non fa distinzione tra ricchi e poveri. Più delle medicine contano la stabilità, l’affetto, le parole, le carezze. Beni che il servizio sanitario nazionale a corto anche di risorse, non può offrire. «Ma c’è qualcos’altro che pure si potrebbe fare - denuncia Luisa Bartorelli, presidente della Onlus Alzheimer Uniti Roma - i centro diurni sono ancora troppo pochi e la maggior parte dei malati e loro famiglie vengono lasciati soli». In Italia sono circa 600 mila le persone affette da demenza. Il 6,4 degli ultra 65enni. In maggioranza donne. Giovanni, 72 anni, 1.350 euro al mese, pensionato, ex dipendente Ama, racconta la sua esperienza: «Mia moglie ha tre anni meno di me. Cominciò ad aver disturbi del comportamento 9 anni fa. Mangia, beve, dorme, ma non posso allontanarmi neanche un minuto da lei. Devo farle tutto, accompagnarla anche in bagno se occorre. E vestirla. Non la lascio mai. Ho paura persino ad andare in giardino a dar da mangiare ai due cagnolini che abbiamo». «Non ci credereste se vi raccontassi cosa è capace di fare mia moglie - continua Giovanni -. Ho rinunciato completamente alla mia vita, a tutte le cose che facevo prima. Ero un campione nel tiro al piattello. Ora la porto a passeggio e me la tengo stretta. Lei parla ma non riesco a capire neanche una parola di quello che dice. La sera guardiamo la tv. Se capita qualche vecchio film di Alberto Sordi lei, poverina, lo indica e mi dice... vedi... vedi. E l’unica parola che ha un senso che riesce a dire. Quando la sorella le telefona starebbe ore ad ascoltarla ma non capisce e sorride». Solo a Roma i malati di Alzheimer sono 30 mila. Ma i centri diurni, quelli dove si può trovare un’assistenza degna di questo nome, medici, infermieri e psicologi, superano di poco la decina. In queste condizioni ci vuole un cuore grande per continuare ad amare un malato di Alzheimer. Vivere in simbiosi con la demenza porta in alcuni casi ad ammalarsi. Specie se si è uomini. E uomini di una generazione che fa una certe fatica a dedicarsi alle mogli. Con figli lontani, orari incompatibili, che non assistono al naufragio, al delirio quotidiano. Perdita di oggetti, accuse di furto, senso di abbandono, depressione, crisi di gelosia. Ancora Giovanni: «Non ci aiuta nessuno e con la mia pensione e l’assegno di 479 euro di mia moglie non posso permettermi una badante. Quell’uomo che ha ucciso la moglie? Io lo condanno con tutte le mie forze, ma non stupitevi se vi dico che lo capisco...». Elena, 70 anni, ex insegnante, ha accudito per 10 anni il marito di 8 anni più grande di lei: «Il familiare non può essere lasciato solo, è la persona più vicina. Io non mi sono ammalata perché a un certo punto sono andata in analisi. E ho capito che non dovevo vergognarmi di chiedere aiuto, di condividere la malattia di mio marito che stava diventando anche la mia con amici e parenti. Ho preso, come si dice, tutte le precauzione del caso, ho imparato che io, Elena, non avevo l’Alzheimer. Ma lui sì. Se volevo aiutare lui, dovevo avere cura di me».Durante la malattia del marito, deceduto per arresto cardiaco due anni fa, Elena ha continuato a prendere appunti. «Scrivere mi ha dato la possibilità di prendere le distanze tra l’emozione forte che stavo vivendo e me stessa. E’ stata un’esperienza di amore, un amore che ho dato a mio marito, ma anche un amore che ho imparato a chiedere agli altri. Perché le persone che sono disposte a aiutarti sono tante, ma solo se tu glielo permetti». E non c’è solo l’Alzheimer. Quasi più grave è forse il caso dei malati psichiatrici. Altre famiglie disarmate e in prima linea contro il disagio mentale. Al Santa Maria della Pietà, l’ex manicomio di Roma, alcuni pazienti ”liberati” dalla legge 180 sono rientrati dichiarando un’altra patologia. Come Stefanino, che oggi ha 45 anni ed è nato proprio in quel manicomio. «Per certe Asl - sostiene il professor Oreste Zambrelli, che gestiva il Raphael, una struttura specialistica sulla via Cassia - la riabilitazione psichiatrica non esiste. Una malata vittima di una ricaduta, una donna di 45 anni, assistita dai figli e dal marito, nel febbraio scorso venne portata d’urgenza all’ospedale Santo Spirito e poi trasferita a Pontecorvo. In tutta Roma non c’erano posti letto».