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 2009  maggio 17 Domenica calendario

BERRUTI, 70 ANNI DI CORSA

Uno sparo in aria e le colombe si alzarono in volo, dal cielo sopra lo stadio Olimpico arrivarono in un lampo a volteggiare sul Cupolone. Il ragazzo, Livio Berruti, aveva tutta la verve dei suoi 21 anni, gli occhi azzurri come il cielo nascosti dietro un paio di occhiali «colpa della miopia». In pista volava anche lui, coprì i duecento metri in 20 secondi e 5 decimi: record del mondo. Erano le 16 del 3 settembre 1960, semifinale delle Olimpiadi di Roma. Due ore dopo si sarebbe ripetuto nella finale mettendo in ginocchio il marine Otis Ray Norton, il favorito che andò fuori dal podio, lontano dal ragazzo italiano che per primo tagliò il filo di lana. trascorso mezzo secolo da quei momenti di gloria. Uno sparo dello starter, un sorso di vento e la curva del tempo infilata dalla parte dell’uomo giusto, rimasto sempre fedele all’insegnamento del prof.
Giovanni Turin del Liceo Cavour di Torino: «Livio non farti mai abbagliare dagli altri, sii sempre te stesso». Nella sua vita di universitario alla facoltà di Chimica e di lettore appassionato del Candido di Voltaire, non era cambiato niente. Neppure dopo che era salito sul podio con al collo la medaglia d’oro capiva perché tanti paparazzi, sconfinati dalla dolce vita felliniana, fossero così interessati alle sue passeggiate platoniche, mano nella mano con la figlia del vento Wilma Rudolph, «trionfatrice anche lei nei 200». Uno dei tanti ricordi che riaffiorano nella mente di quell’ex ragazzo che il 19 maggio festeggia 70 primavere. Con la moglie Silvia ci accoglie sulla porta del suo appartamento torinese e mostra lo stesso sorriso olimpico di ieri. «Le uniche due volte che ho pianto in vita mia è stato quel giorno sul podio appena ho sentito le note dell’inno di Mameli e poi la lunga notte del ”69 quando in diretta tv ho assistito allo sbarco di Armstrong sulla luna». Uno scatto fuori dall’album in bianco e nero di questa storia di sport che cambiò la mentalità di un Paese. Quell’Italia appena ricostruita e in pieno boom economico sentì per la prima volta nella falcata di Berruti di aver trovato la velocità massima per proiettarsi nel futuro.
«Probabilmente, in parte la mia medaglia e il record del primo europeo in una gara di velocità in cui gli americani erano da sempre i padroni, accelerò quella spinta generale. Per me invece fu la giornata normale di uno che fin da piccolo aveva sempre provato una specie di osmosi naturale con il correre. Avevo cominciato zigzagando dietro ai gatti nell’aia della casa di Stroppiana...». La casa di famiglia tra le risaie del vercellese, fascino discreto di una borghesia che aveva generato il suo piccolo grande eroe esemplare, senza esaltarsi neanche davanti al traguardo leggendario. «I miei quel giorno neanche c’erano allo stadio Olimpico. Mio padre Michele e mia madre Alda erano d’accordo su un punto fondamentale: se fossi andato bene a scuola avrei potuto correre tutto il tempo, in caso contrario, meglio smettere subito». Fu il curriculum da studente modello a permettergli di arrivare a Roma e incominciare il suo viaggio nella galassia olimpica. «Mi sono sempre sentito un ’turista dell’atletica’. A Mosca nel ”59 sequestrai l’interprete due giorni per conoscere le bellezze di quella capitale segregata dalla cortina di ferro. Prima la conoscenza, poi il sacrificio, ma ridotto al minimo. Mi allenavo un’ora e mezza due volte alla settimana, sempre dopo lo studio e la lettura. In testa mentre correvo mi facevano compagnia le note jazz di Bix Beiderbecke e di quelli che poi sono diventati i miei amici, Gianni Basso e Franco Cerri… Al diavolo gli allenamenti stressanti e lo sport professionistico che ormai fa male alla salute e al cervello. Il vero doping d’oggi è la pressione, specie quella mediatica, che ha creato una generazione di fenomeni informati e vincenti, ma soli e tristi, che non si divertono più a fare sport perché sono ossessionati dal dover vincere a tutti i costi. Se arrivi secondo sei un fallito e questo glielo insegnano già a casa dove i genitori sono ’uno e trino’: direttori sportivi, manager e allenatori.
Partecipare alle Olimpiadi per me significava sentirmi parte di un universo che comprendeva ragazzi e ragazze provenienti da paesi e culture lontane e quella era la vera faccia d’oro della medaglia».
Dopo quella medaglia di Roma intanto il mondo si interrogò sulle potenzialità straordinarie del ragazzo della porta accanto. «A Tokyo nel ”64 ai giapponesi spiegai che forse quel mio volare in curva era frutto di un passato nel pattinaggio. Non l’avessi mai detto! Credo di aver rovinato un’intera generazione di velocisti giapponesi che cominciarono a darsi al pattinaggio, ma senza poi ottenere i risultati sperati quando in pista affrontavano le curve.
Andare più veloci, superare i propri limiti umani rimane un mistero. Quei limiti li ha spiegati bene Jacques Monod nel suo libro Il caso e la necessità in cui scrive che a una serie di conseguenze genetiche vanno sommate delle variabili frutto della casualità». Lo sport ha sicuramente completato il suo bagaglio già ricco. «Credo nell’uomo e nel progresso scientifico, però quando il cardinale Sepe mi invitò a un convegno sullo Spirito Santo con molta spontaneità dissi che sicuramente quel giorno a Roma era sceso sopra di me, altrimenti non avrei mai potuto compiere quell’impresa…». Non gli riuscì di ripetersi quattro anni dopo a Tokyo e neanche a Città del Messico nel ”68. Così, senza patemi, a 28 anni la sua curva di celebrità si chiudeva.
«Essere un campione non era stata mai la mia massima aspirazione. Avevo due sogni da realizzare: diventare scienziato e fare il giornalista. Nonostante la laurea in chimica, mi è riuscito solo parzialmente il secondo. A Monaco nel ”72 scrivevo per tre giornali, ma lì ho vissuto il momento più tragico. Nel villaggio olimpico ho sentito cantare e ballare gli arabi nonostante sapessero che nella palazzina di fianco erano stati uccisi dei ragazzi israeliani.
Quel giorno ho capito che lo sport olimpico stava morendo».

Eppure il decennio si sarebbe concluso con il passaggio di testimone e l’ascesa di Pietro Mennea, record del mondo dei 200 (nel ”79) con 19’’ e 72. «Mennea ha trasformato l’atletica in sofferenza, mentre tutto lo sport non è altro che espressività della propria gioia e del potenziale creativo che l’uomo possiede». Da Monaco in poi, passando per Mennea, anche nello sport iniziò l’era della banalità del male, l’impero dominante dello show-business. «Tutto è regolato dal denaro, dagli sponsor e dalla tv che allunga la vita degli atleti e li vuole forti e vincenti anche dopo i 40 anni. E loro si prestano, firmano contratti ed esclusive di ogni genere. Io nella finale di Roma invece di calzare le Adidas con cui avevo fatto il record in semifinale, mi rimisi ai piedi le Valsport… Alla fine quelli dell’Adidas vennero da me e mi dissero: peccato Berruti, se avesse messo le nostre scarpe le avremmo dato 300mila lire. Si correva per niente, lo sponsor io credevo fosse solo il cuore e la passione che dovevi metterci in gara. Siamo stati una generazione di ingenui, ma che sapeva ancora apprezzare una parola straordinaria che si chiama etica. Quelli che non si sono persi, continuano a difenderla con le unghie e con i denti come faccio io. E sarà l’etica a salvare lo sport e a generare ancora degli uomini eccellenti e dei campioni che la gente non potrà mai dimenticare».